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"La Quaresima è una chiamata alla mobilitazione esistenziale per accogliere la svolta che Dio può imprimere in noi" Omelia del card. José Tolentino de Mendonça per la I°domenica di Quaresima

Nella basilica di Santa Maria in Trastevere

 

I° Domenica di Quaresima

Deuteronomio 26,4-10
Romani 10,8-13
Luca 4,1-13

Volgiamo gli occhi e il cuore su Gesù. Le tentazioni che i Vangeli sintetizzano in una pagina certamente Lo accompagnarono lungo tutto l’arco della sua esistenza. Credo che possiamo immaginare le voci contrastanti che avrà udito lungo la sua vita, le pressioni che avrà avvertito, il conflitto interiore, i dilemmi che lo attendevano al bivio, il peso insostenibile delle aspettative di chi lo voleva re, chi taumaturgo, chi un manovrabile tappabuchi, chi un facile messia. Le tre grandi formulazioni che troviamo nel racconto delle tentazioni riassumono quello che Gesù spesso sperimentò, e al tempo stesso segnalano quelle turbolenze fondamentali che sono comuni alla nostra condizione umana. Le riprendiamo nella versione di san Luca, nel Vangelo di oggi. Concentriamoci sulla prima tentazione: «Allora il diavolo gli disse: «Se tu sei Figlio di Dio, di’ a questa pietra che diventi pane». Gesù gli rispose: «Sta scritto: "Non di solo pane vivrà l’uomo"». A prima vista questa è un’evidenza condivisa. Possiamo percorrere la storia del pensiero, la storia della cultura, e non troveremo nessuno che lo neghi. Nemmeno i più pessimisti sul senso dell’essere umano, nemmeno i più materialisti. Ma il problema che Gesù pone non è soltanto che il pane, o la materialità della vita nel suo complesso, sia insufficiente.

La parola di Gesù ci porta più lontano, dal momento che ci obbliga a confrontarci con quello che ci fa vivere. Non viviamo di solo pane. E allora di che cosa viviamo, oltre al pane? Gesù ci mette davanti alla domanda ineludibile, lasciandola aperta perché ci contempliamo in essa come chi si studia allo specchio: di che cosa abbiamo fame, sete, desiderio e che cosa veramente ci sazia? In questo modo Gesù rilancia la questione di fondo dell’essere umano, questione che non si riduce alla lotta per la sopravvivenza né si spiega solamente con essa. L’essere umano è di più. La vita è chiamata a essere di più. Né la fame né la sete possono servirci di scusante per non essere umani. Gesù apre un orizzonte che il tentatore tenta di chiudere. «Non di solo pane vivrà l’uomo».

Non si tratta di opporre i valori materiali ai valori spirituali o la vita terrena alla vita di Dio. L’uomo non può vivere senza pane, non può rinunciare alla cura materiale che garantisce la sua sussistenza. Anche questa è la sua realtà. Quando Gesù si rivolge a noi ponendoci la domanda su ciò di cui viviamo oltre al pane, non è per farci evadere dalla realtà del pane, ma per farcela considerare come un luogo che deve essere investito dallo Spirito. Egli stesso ci mostrerà come si fa, quando prenderà il pane dicendo: «Mangiate questo pane che non è solo pane; che è il mio corpo, il dono totale della mia vita consegnata per voi». Se il nostro pane sarà più che pane, se si lascerà attraversare dal amore, dal senso della fraternità e della condivisione guadagnerà una potenza che il semplice pane non possiede.

Guardiamo la seconda tentazione: « Il diavolo lo condusse in alto, gli mostrò in un istante tutti i regni della terra e gli disse: «Ti darò tutto questo potere e la loro gloria, perché a me è stata data e io la do a chi voglio. Perciò, se ti prostrerai in adorazione dinanzi a me, tutto sarà tuo». Gesù gli rispose: «Sta scritto: "Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto"».
Il culto del potere, qualunque esso sia, fa del potere un idolo. Fa diventare il dominio e il possesso la presunta fonte di felicità e di senso, riducendo a questo l’orizzonte del significato della vita. Ognuno di noi, in questa quaresima, è chiamato a chiedersi seriamente non soltanto «che cosa io faccio del potere che detengo o che mi è stato affidato?», ma anche: «Che cosa il potere ha fatto di me?». È un rischio enorme, quando la tentazione del potere, su scala più o meno grande, ci allontana dal mistero della croce. Quando smette di essere chiaramente un servizio ai fratelli e si tramuta in delirio di autoaffermazione e di autoreferenzialità. Non dimentichiamo che Gesù si rifiutò categoricamente di inginocchiarsi a Satana, ma volontariamente s’inginocchiò davanti ai discepoli per lavare loro i piedi (Gv 13,4-5). Gesù cita nella risposta a Satana un comandamento della legge di Dio: «Il Signore, Dio tuo, adorerai: a lui solo renderai culto» (Dt 6,13). Rendere culto a Dio, e solo a lui, come Gesù sottolinea, rappresenta un esercizio di libertà. E, al tempo stesso, la capacità di cuore di dire agli altri: «Io sono qui per servire».

La terza tentazione è il culmine del racconto. «Se tu sei Figlio di Dio, gèttati giù di qui; sta scritto infatti: "Ai suoi angeli darà ordini a tuo riguardo affinché essi ti custodiscano"; e anche: "Essi ti porteranno sulle loro mani perché il tuo piede non inciampi in una pietra"». Gesù gli rispose: «È stato detto: "Non metterai alla prova il Signore Dio tuo"».
C’è un elemento strano, paradossale, nella strategia del diavolo, che qui si mette ad argomentare con la Scrittura stessa neanche fosse un raffinato professore di teologia. Cita il Salmo 91,11-12: «Egli per te darà ordine ai suoi angeli […] essi ti porteranno, perché il tuo piede non inciampi nella pietra». Gesù viene tentato con la parola di Dio e con il suo contenuto ultimo. Ma il senso vero di questa tentazione viene di nuovo chiarito dalla parola di Gesù, che cita il passo del Deuteronomio «non tenterete il Signore, vostro Dio» (Dt 6,16). È interessante ricordare il passo completo: «Non tenterete il Signore, vostro Dio, come lo tentaste a Massa». Che cosa accadde a Massa? Avvenne la cosiddetta ribellione della sete. Nell’attraversare il deserto, il popolo litigò con Mosè esigendo: «Dacci acqua da bere!». E rivoltò contro il Signore per metterlo alla prova rumoreggiando: «Il Signore è in mezzo a noi sì o no?» (Es 17, 1-7). È come se Dio dovesse sottostare alle condizioni che noi stabiliamo essere necessarie per poter credere in Lui. Se non garantisce la protezione promessa, e nel modo in cui noi vogliamo vederla assicurata, le certezze della nostra fede vacillano. Se non soddisfa immediatamente i nostri molteplici bisogni, restiamo storditi senza capire se lui stia in mezzo a noi oppure no. Ora, Gesù ci rivela che Dio lo si tocca anche nel silenzio di Dio. Gesù non si butta giù dal pinnacolo del tempio. Ma si getta dalla cima della croce in quella preghiera in forma di grido: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34). Per credere, noi vogliamo vedere le nostre richieste soddisfatte. Noi vogliamo amare Dio per quello che ci dà. Un poco per volta, però, impariamo come questo modo di vedere sia un luogo di tentazione. Madre Teresa di Calcutta diceva: «Voglio amare Dio per quello che mi toglie». È qualcosa che dobbiamo imparare.

La Quaresima è un tempo simbolico, a cominciare dal nome. Quaresima viene da Quaranta: quaranta sono stati gli anni che il popolo di Dio ha trascorso nel deserto per preparare il suo ingresso nella Terra Promessa – Es 16, 35; e quaranta sono stati i giorni in cui Gesù si è preparato per la sua missione – Lc 4, 1-13. Anche noi abbiamo i nostri quaranta giorni di preparazione alla Pasqua. Chiaramente questo è un tempo nel quale si deve intensificare il nostro sforzo di conversione. Il programma quaresimale sfida ognuno di noi a porsi in revisione critica, mettendo in discussione i propri stili di vita e contribuendo in tal modo a far emergere una coscienza comunitaria più attenta.

La Quaresima è un soprassalto, un gesto dirompente, una chiamata alla mobilitazione esistenziale per accogliere la svolta che Dio può imprimere in noi. La Quaresima arriva per smuovere le acque, mettere in questione certezze, interrompere disfattismi. «Come può nascere un uomo quando è vecchio?», chiedeva Nicodemo. Gesù gli rispose. E ci risponde a noi. Soltanto accettando la sfida profonda e concreta che la Pasqua di Gesù rappresenta per la nostra vita ci sarà permesso di celebrarla veramente.
 

Card. José Tolentino de Mendonça