Intervento di mons. Ambrogio Spreafico alla Memoria della Deportazione degli Ebrei di Roma del 16 Ottobre 1943
Cari amici, mi sono chiesto perché anche oggi trovarci come ogni anno per fare memoria del 16 ottobre 1943, una tragica notte di dolore e morte, nonostante le coincidenze e gli impegni di questa giornata. Perché la memoria secondo le Sacre Scritture ebraico-cristiane è uno dei pilastri della vita di fede delle nostre comunità e del nostro vivere insieme. “Ricordati”, dice ripetutamente Dio a Israele. La memoria fa la storia, la costruisce anche nei momenti difficili come quello che stiamo attraversando; anzi proprio in questi momenti abbiamo bisogno di non dimenticare, perché senza memoria saremmo tutti schiavi del presente, di un io che vorrebbe sottometterci alla paura, che rende distanti e persino nemici. La memoria fa vivere; persino la memoria del male come quella di questa sera può essere un richiamo alla vita. La memoria infatti è anzitutto la memoria di un’alleanza che Dio ha stabilito con Noè e con l’umanità intera e poi con Abramo e con il suo popolo Israele, e che con Gesù è giunta anche a noi cristiani. Scrive Jonathan Sacks: “Ciò che colpisce negli ebrei tutti, che siano religiosi o laici, è la determinazione a sopravvivere con cui hanno risposto alla minaccia di distruzione. Non morirò, ma vivrò (leggiamo nel Salmo 118): ecco la reazione ebraica al viaggio attraverso persecuzioni e sterminio… Dinanzi alla crisi il popolo ebraico ha riaffermato la propria alleanza con la storia, una storia che ebbe inizio, in retrospettiva, con un fatto sorprendente: che il popolo d’Israele vive in virtù della testimonianza a un Dio vivente” (Crisis and covenant. Jewish Thought after the Holocaust). Si, questa memoria è diventata scelta di vita, per costruire una storia in cui si potesse continuare a testimoniare l’alleanza di Dio con l’umanità intera, per vivere come fratelli e sorelle, un’unica famiglia nella nostra diversità, come papa Francesco scrive così bene nell’enciclica Fratelli tutti e come ha ripetuto la scorsa settimana al Colosseo in quel memorabile incontro tra le religioni, che con tenacia la Comunità di Sant’Egidio porta avanti ogni anno: “Sogniamo religioni sorelle e popoli fratelli! Religioni sorelle, che aiutino popoli a essere fratelli in pace, custodi riconciliati della casa comune del creato”.
Cari amici, la memoria del 16 ottobre richiama alla necessità di impegnarci perché la nostra storia e la nostra fede diventino cultura del vivere e del convivere. La storia e la fede ebraica sono diventate cultura ed hanno arricchito l’umanità. Mi chiedo a volte come possa avvenire che una storia così ricca possa ancora subire attacchi violenti, debba sottostare a quell’antisemitismo e antigiudaismo che purtroppo seminano non solo odio nei confronti di donne e uomini che hanno sofferto e delle comunità ebraiche, ma inoculano pillole di inimicizia nel tessuto umano nel quale saremmo chiamati a costruire nella nostra differenza un mondo fraterno. Credo che questa cultura, cresciuta nei secoli, metta in discussione e interroghi la prepotenza dell’io di individui e di gruppi che non vedono altro che se stessi, la loro identità da difendere invece di condividerla in un dialogo paziente e costruttivo. Come è possibile, mi chiedo, in un tempo così doloroso per l’umanità intera, non fare della memoria della Shoà un monito perché l’idea e i convincimenti di uno non diventino motivo di rivalsa, di violenza, di esclusione dell’altro? Cari amici, la memoria che così fedelmente rinnoviamo ogni anno ci preservi dall’accondiscendere al clima violento che respiriamo, e ci aiuti a rinnovare quell’alleanza di amore che sola porta alla vita e che nella nostra diversità, e insieme nella nostra unità, siamo chiamati a custodire e a testimoniare “spalla a spalla”, come dice il profeta.
Termino ricordando ancora con commozione le parole pronunciate da Rav Israele Meir Lau ad Auschwitz Birkenau durante l’Incontro di preghiera per la pace della Comunità di Sant’Egidio nel 2009: “Quando nel ’95 mi trovavo nel campo di Buchenwald, nella città di Weimar in Germania, dove venni liberato quando avevo 8 anni, sul muro della finestra della stanza delle torture vidi una parola “Necumene”, in Yiddish "fai la vendetta". Era l’ultima parola di un uomo torturato in quella stanza, una vittima di Buchenwald. Vendetta. Quale vendetta possiamo fare noi? Sono un credente, credo nel Signore onnipotente, non solo perché sono un rabbino o un ebreo, ma perché sono un essere umano. Io credo sia accaduto dal Cielo. Due o tre ore fa, qui a Cracovia, ero arrivato stanotte per partecipare all’incontro, ho ricevuto una telefonata da mia nipote. “Nonno, mezz'ora fa ti ho dato alla luce un altro nipote." E’ nato oggi alle 7 in Israele. Questa è la mia vendetta. Questa è la mia risposta. Questa è la mia soluzione. Vivi e lascia vivere. Vivete insieme, in amicizia, in amore ed in pace”.
Quanto abbiamo bisogno in questo tempo delle parole di Rav Lau. Viviamole insieme per il bene di questa città e del mondo, perché l’umanità ritrovi la strada della solidarietà e della fraternità e possa riappropriarsi della speranza che tutto può cambiare se insieme lo vogliamo e lavoriamo con passione e generosità.
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