Nella sera del 16 ottobre, a ottantadue anni dal rastrellamento del 1943, Roma si è raccolta in silenzio al Portico d’Ottavia per ricordare i 1.024 ebrei romani deportati ad Auschwitz: ne tornarono solo 16. Una ferita profonda, che resta incisa nella storia della città e chiede a tutti di rinnovare l’impegno contro ogni forma di antisemitismo e di razzismo.
La Comunità di Sant’Egidio e la Comunità Ebraica di Roma hanno promosso anche quest’anno la commemorazione, alla presenza del rabbino capo Riccardo Di Segni, del sindaco di Roma Roberto Gualtieri, del presidente della Comunità Ebraica Victor Fadlun e del fondatore di Sant’Egidio Andrea Riccardi, insieme a numerosi cittadini, autorità civili e religiose, ambasciatori e rappresentanti del mondo della cultura.
Il rabbino capo Riccardo Di Segni ha ricordato come il 16 ottobre sia diventato il simbolo della Shoah italiana, una memoria che “vive nella carne della comunità ebraica ma appartiene a tutta la città e al mondo intero”. Ha espresso preoccupazione per il “capovolgimento della memoria” che oggi si avverte, con nuove narrazioni che rischiano di oscurare la consapevolezza di ciò che è accaduto. E ha richiamato anche la dimensione religiosa della data, coincidente con la festa ebraica di Sukkot: “Un passaggio – ha detto – che ci insegna che la storia è fatta di cose rivelate e di cose nascoste. Speriamo che i semi fecondi della pace possano ancora germogliare”.
Il sindaco Roberto Gualtieri, nel suo intervento, ha sottolineato che “il rastrellamento non fu un incidente della storia, ma il frutto della furia nazifascista e di un odio antisemita radicato”. Roma – ha aggiunto – “deve essere sempre un presidio di civiltà, dove la memoria non è un rito ma un impegno quotidiano, da rinnovare nelle scuole, nei quartieri, nei luoghi di lavoro”.
Per il presidente della Comunità Ebraica, Victor Fadlun, il 16 ottobre “non è una pagina del passato, ma una ferita viva”: la violenza – ha ricordato – comincia dalle parole, e “prima dei treni piombati ci furono le leggi razziste del ’38 e la propaganda dell’odio”. La memoria del 16 ottobre "è, o dovrebbe essere, ciò che impedisce alla storia di tornare".
A concludere la serata, il professore Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, ha offerto una riflessione sul senso di questa memoria condivisa, che non è mai soltanto un esercizio del passato ma un appello al presente:
“Viviamo in un tempo di revisionismo, in cui la memoria si annacqua e tutto diventa relativo. La razzia degli ebrei romani è lontana nel tempo, ma resta vicina nel dolore. Ricordare non è un atto rituale: è un atto morale e umano. È scegliere di non lasciarsi travolgere dall’indifferenza, perché vivere degnamente significa anche non dimenticare. L’antisemitismo non è solo una colpa del passato: è un rischio del presente, quando si abbassano le difese della coscienza e ci si abitua all’odio. La memoria non è un rito per pochi, ma un muro contro la barbarie”.
Riccardi ha ricordato anche storie concrete, come quella di Leone Sabatello, giovane ebreo romano deportato con la famiglia, unico sopravvissuto tra i suoi cari, simbolo di una generazione spezzata ma non dimenticata. “Non possiamo – ha concluso – ridurre quella tragedia a una storia brutta tra tante: fu un male assoluto, un punto di non ritorno nella storia dell’umanità. Per questo, anche oggi, Sant’Egidio è accanto alla comunità ebraica, con amicizia fedele e con l’impegno a far sì che i giorni del terrore non tornino mai più”.
L’incontro, segnato da momenti di silenzio e di raccoglimento, si è chiuso con un lungo applauso e l’impegno condiviso a difendere la memoria come fondamento della convivenza e della pace.
Video