Intervento di Marco Impagliazzo, Presidente della Comunità diu Sant'Egidio
Parlare di abolizione pena di morte in un tempo in cui domina la “percezione” della realtà sulla realtà stessa, sembra difficile. In effetti la “santa ignoranza” odierna –come la chiama Olivier Roy- sembra aver tagliato il legame storico che esisteva tra cultura e qualunque tipo di idea o fede, umana, religiosa o laica, per affidarla al sentire individuale, all’emotivo. E l’emotivo non è razionale, logico o conseguente: investe gli individui e la società tutta, trascinandoli con forza anche laddove non andrebbero. Sulla pena di morte è facile lasciarsi trascinare, specie dopo efferati delitti. E magari trovare di volta in volta giustificazioni al suo utilizzo nella religione ma anche nella (molto secolarizzata) ricerca di stabilità o di tranquillità.
È quella geopolitica delle emozioni, fatta di paura e frustrazione, di cui scrive Dominique Moisi: sulla società passano onde emozionali, mosse in nome dello slogan del momento (quelle narrazioni che i manipolatori della comunicazione conoscono bene), nutrite dalle frustrazioni e dalle paure (che da quotidiane si fanno assolute) e che pretendono soluzioni decise e rapide. Una situazione ottimale per i sostenitori della pena di morte, per i quali quest’ultima si presenta come soluzione rapida e semplice appunto, radicale e definitiva. Sono proprio tali presunte qualità a renderla popolare di questi tempi: sembra corrispondere meglio al bisogno di sicurezza di tutti, ma anche a quello di sovranità o di purezza identitaria, a quello di radicalismo religioso (magari apocalittico) ecc. E così vediamo con sgomento che la pena di morte viene utilizzata (e giustificata) anche e soprattutto da quel terrorismo fanatico che vorrebbe omologare tutto, o da regimi sempre più autoritari.
Malgrado ciò, anche quest’anno durante il voto in commissione all’ONU, alla bozza di risoluzione per la moratoria nuovi paesi abolizionisti (de iure e de facto) si sono aggiunti a favore di essa, ben 123, mentre 30 si sono astenuti e 36 contrari. Si tratta di una buona notizia: ciò significa che gli Stati, almeno quando dialogano fra di loro, non si fidano della “geopolitica della emozioni”. Sanno che manipolare l’opinione pubblica è sempre qualcosa di pericoloso e che nell’ordine mondiale deve prevalere il realismo dell’equilibrio. In un contesto di violenza parossistica causata dal terrorismo globale (e dalla guerra contro di esso), si rendono conto anche che occorre smarcarsi dalle sue pratiche più orribili. Tutto ciò dimostra –se ce ne fosse ancora bisogno- quanto sia utile l’ambito multilaterale oggi molto criticato, che resta l’unico ammortizzatore delle tensioni e uno spazio di assennatezza e oggettività concreta della politica globale. La società civile in questo ambito gioca un ruolo tutto particolare. Il rapporto costante tra Sant’Egidio e l’Onu sulle questioni della pace, delle migrazioni, dei diritti e della moratoria delle condanne a morte, ne è un esempio virtuoso.
Tuttavia, il quadro generale della violenza quotidiana rimane desolante. La morte violenta di tante persone ci colpisce. Si tratta di una ferita, una cicatrice che sfigura tutte le società, nessuna esclusa.
La morte delle donne, innanzi tutto: il femminicidio. Migliaia di croci rosa nello stato della città di Tijuana a nord del Messico: cimitero reale e allo stesso tempo simbolico di quanta ingiustizia c’è ancora nel nostro mondo contro le donne, quante morti, quanta sofferenza, quante lacrime. Nessuna società ne è esente: penso ai continui femminicidi in Italia come nel resto d’Europa; agli stupri come arma di guerra in Africa o contro le minoranze in Medio Oriente, in specie la schiavitù sessuale imposta dall’ISIS e da altri gruppi jihadisti in Siria e Iraq per le donne yezide o cristiane; alle torture subìte dalle donne saudite oggi in carcere per aver guidato un’auto; alle profughe roynghia; allo stupro pubblico come vendetta in India; ai matrimoni precoci delle bambine e all’orribile mercato delle spose bambine siriane profughe. Non dimentichiamo nemmeno lo scambio di favori sessuali in cambio degli aiuti, richiesti da membri o agenti di alcune organizzazioni internazionali umanitarie, come accaduto di recente in Siria e come era accaduto in Bosnia…
La morte data dal terrorismo e dalla guerra, che colpisce soprattutto civili e innocenti, come i bambini. Abbiamo ancora negli occhi le immagini di terribili attentati in tutto il mondo di cui l’emblema restano le Torri Gemelle di New York, che ha colpito e colpisce dalle tranquille piazze europee al Pakistan, dall’Africa occidentale alla Siria o alla Libia. Sottolineo particolarmente la guerra in Yemen, un conflitto dimenticato e senza immagini, dove ogni giorno muoiono bambini, donne e anziani sotto bombardamenti indiscriminati. Ma potrei citare il caso della Repubblica Centrafricana, la guerra in Congo Democratico, il Mali o il Sud Sudan…
La morte dei giornalisti e degli attivisti dei diritti umani in genere. Molti giornalisti sono stati uccisi negli ultimi anni (2300 negli ultimi 25 anni) anche in paesi che si considerano democratici. La morte di Fares Raed attivista e giornalista radio siriano ucciso due giorni fa attorno a Idlib non è che l’ultimo caso: un uomo che combatteva con le sole parole contro la violenza. Quasi 200 attivisti ambientali uccisi l’anno scorso nel mondo e tanti altri, quelli che a vario titolo hanno provato a difendere i diritti umani.
Potrei citare ancora il caso della morte causata dal razzismo e dall’etnicismo, in questo nostro mondo sempre più nazionalista e identitario, dove i suprematisti della razza hanno ritrovato udienza e talvolta giustificazione. Anche in Italia si sono recentemente compiuti omicidi in nome della razza (Macerata, Firenze); lo stesso è accaduto in Germania (Chemnitz), altrove in Europa e purtroppo accade continuamente negli USA nei confronti degli afroamericani e ora anche dei latinos.
Ci domandiamo: davanti a tutte queste morti, a queste uccisioni per guerra, per terrorismo o extragiudiziali, perché occuparci ancora della pena di morte? Vale la pena combattere la morte “legalizzata” se quella illegale o coperta dai conflitti è così enorme, disumana, generalizzata?
Dico di sì, vale la pena perché la battaglia contro la pena di morte toglie di per sé stessa ogni legittimità a qualunque morte, omicidio, violenza e, soprattutto, a qualunque guerra dichiarata o non dichiarata, giustificata o non giustificata.
Battersi per questo diritto alla vita sempre e in ogni caso, anche in quello del colpevole condannato da un giusto processo (facendo in modo che non sia possibile togliergli la vita quand’anche l’avesse tolta egli stesso) lancia un potente segnale contro tutte le altre violenze, morti per guerra o uccisione extra legale, in affannosa cerca di legittimazione. Il nichilismo che c’è dietro a chi si batte per togliere la vita agli altri non è contestato ma avvalorato dalla pena di morte.
L’abolizione della pena di morte nei sistemi giuridici, toglie, cancella, abolisce in radice ogni tentativo giustificatorio, giuridico-legale, storico, antropologico, etnico o ideologico che sia. Si tratta quindi di un messaggio culturale di estrema importanza.
Se anche in un giusto processo non è possibile condannare a morte un colpevole acclarato, allora ogni morte violenta perde il suo senso, la sua scusante e -soprattutto- la sua inevitabilità. Se non si condanna a morte nemmeno il colpevole (dopo avergli offerto ogni garanzia giuridica), allora uccidere non è più inevitabile e nessuno può discolparsi, nessuno può alzare la braccia nemmeno davanti ai “danni collaterali” o invocare una cultura, una tradizione, una religione o qualunque forma di “santa o folle ignoranza” allo scopo di giustificare una o più uccisioni.
Lottare contro la pena di morte è dunque una battaglia assoluta per la vita e per tutte le vite, una contestazione radicale contro ogni morte violenta: la morte viene dichiarata sempre ingiusta, ingiustificata, ingiustificabile e –di conseguenza- assolutamente evitabile.
Quindi sì: vale la pena battersi per questa campagna mondiale. Mediante essa contestiamo oggi tutte le morti violente e restituiamo la voce a tutti i bambini uccisi; a tutte le donne massacrate o che hanno subito violenza; a tutti i civili uccisi in guerra; a tutti gli attivisti, giornalisti o militanti assassinati; a tutte le vittime del terrorismo, del razzismo o dell’odio etnico e identitario; a tutti gli uccisi per mafia e criminalità; a tutte le minoranze che hanno rischiato il genocidio. Mi piacerebbe dire che oggi restituiamo la parola a tutti coloro che hanno lottato per la vita e l’hanno persa perché noi potessimo preservarla comprendendone l’assoluto valore.
Esiste umanità finché c’è vita, anche poca, anche debole, anche limitata. Come rispettiamo la vita in tutte le sue forme, così dobbiamo credere anche che la vita del condannato può avere un valore. Chi siamo noi per giudicare quanta vita è rimasta e quanto vale? Una nazione che abolisce l’uso della pena capitale, è una nazione che non ha posto limiti al futuro, che dà ai propri cittadini un segnale di speranza: nulla è già scritto o è irreversibile. Essere contro la pena di morte rappresenta una vigilanza continua sul nostro pensiero e sulla società: un modo per sottrarsi al sonnambulismo che porta al disinteresse alla vita degli altri o, addirittura, a negare un possibile cambiamento.
La recente modifica del Catechismo della Chiesa cattolica da parte di papa Francesco sul tema pena di morte è tanto più significativa, quanto più vasta è la presenza della Chiesa e dei cattolici. Oggi, tutti coloro che negli angoli del mondo sono coinvolti in questo delicato fronte, si sentono rafforzati nel loro impegno perché la pena di morte sia finalmente abolita. È il caso di associazioni cristiane o laiche che hanno fatto dell’abolizionismo un impegno decisivo, è il caso di Conferenze episcopali come quella filippina, indonesiana, ugandese o statunitense (per citarne solo alcune) impegnate unanimemente su questo fronte in Paesi retenzionisti. La Comunità di Sant’Egidio ribadisce oggi la sua più ferma convinzione che questa pena infame non ha nessun senso e nessuna giustificazione perché non c’è giustizia senza vita.