«Troppo spesso indulgiamo al concetto dello scarto e ci autoescludiamo. Invece abbiamo una responsabilità di fronte alle altre generazioni»
Abbiamo perso il significato del gerundivo latino veneranda, "da venerarsi", e abbiamo dovuto importare la parola ageismo per intendere la mancanza di rispetto verso l'anziano. Abbiamo chiesto a monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Fondazione Età Grande, che cosa possiamo fare come singoli e come società per invertire questa rotta.
«Ripartirei», spiega, «dal IV comandamento, che non chiede solo ai bambini di obbedire ai genitori, ma ai figli grandi di non abbandonare i genitori anziani, anzi di onorarli. Che contrasto con la mentalità ordinaria che porta ad abbandonare i vecchi, a non considerarli! Il comandamento parla di un atto dei figli, a prescindere dai meriti dei genitori, e dice una cosa straordinaria e liberante: anche se non tutti i genitori sono buoni e non tutte le infanzie sono serene, tutti i figli possono essere felici, perché il raggiungimento di una vita piena dipende dalla giusta riconoscenza verso chi ci ha messo al mondo». Ripete: «Tocca anche a noi anziani dover contrastare l'esclusione».
Come pensa che si possa farlo?
«Il peggior nemico della vecchiaia è l'idea che noi stessi, anziani, ne abbiamo: troppo spesso introiettiamo il concetto dello scarto e cadiamo nell'autoesclusione. No! Dobbiamo riscoprire la vocazione che il Signore ci dona, in questo tempo che dalla pensione può farci vivere per 25-30 anni e più: l'arco di una generazione. Papa Francesco ha svolto un apposito ciclo di 19 catechesi sul senso cristiano della vecchiaia, Abbiamo una responsabilità di fronte alle generazioni che "salgono"».
Da poco ha compiuto ottant'anni: da questa prospettiva che cosa si sente di chiedere alla società?
«Molti mi chiamano a parlarne. Gli anziani che incontro concordano con me sulla necessità di scoprire il compito che proprio noi abbiamo verso il resto della società. In Italia siamo 14 milioni, la prima generazione di anziani di massa: abbiamo la responsabilità di inventare una vecchiaia dignitosa, altrimenti sarà un dramma per chi viene dopo. Come potranno sperare in una vita lunga se gli ultimi anni sono un naufragio?».
La qualità della vita dipende da tanti fattori: c'è qualcosa che l'aiuta soggettivamente?
«Far parte della Comunità di Sant'Egidio mi aiuta a dar senso alle mie giornate. La solitudine, a ogni età, è il malessere della società contemporanea. Bisogna riapprendere a stare assieme, anche da anziani, a vivere relazioni dirette, personali: da soli, si sta male. Lo disse Dio già dall'inizio: "Non è bene che l'uomo sia solo!". A Sant'Egidio sperimentiamo il cohousing: anziani che vivono insieme aiutandosi tra loro, È la strada per abbattere la solitudine».
Da entrato nella grande età che cosa la disturba di più?
«Il venir meno progressivo di tante energie è una prova seria, ma non una condanna. È un'opportunità per riscoprire gli aspetti davvero importanti in questa fase della vita: accettarci per come siamo, renderci utili nelle nostre famiglie e con gli altri. Conosco storie di grande complicità tra nonni e nipoti. Storie belle di affetti e di dialogo, di vita vissuta davvero. Mi "disturba" che si facciano conoscere così poco».
[ Elisa Chiari ]