Genova ricorda la deportazione degli ebrei del 3 novembre 1943. Per non dimenticare

Dachau. Buchenwald. San Sabba. Auschwitz. I nomi scritti sui cartelli neri scintillano per la pioggia, spuntano tra gli ombrelli. La geografia dell'orrore dell'Olocausto però riguarda anche Genova. Ed è per questo che ogni anno, da dieci anni, la Comunità di Sant'Egidio di Genova e la Comunità ebraica organizzano la Marcia della memoria, in ricordo della deportazione di 250 ebrei genovesi, il 3 novembre 1943.

«In quell'Ucraina dove oggi c'è la guerra - ricorda a tutti Andrea Chiappori della Comunità di Sant'Egidio - sotto la dominazione nazista morirono 4 milioni di persone, di cui un milione di ebrei inviati ai campi di sterminio. La storia della Shoah non è una questione del popolo ebraico o della Germania, è la storia di tutta l'Europa in cui ci furono segregazione e leggi razziste». Storia viva sulla pelle dei pochi sopravvissuti ormai rimasti, come Gilberto Salmoni, salutato da un applauso collettivo all'inizio della cerimonia. Per la Regione interviene l'assessore Simona Ferro: «Occorre chiedersi come rappresentare ai più giovani il ricordo di questo abisso - dice - dobbiamo custodire la memoria e coinvolgere i giovani genovesi e i giovani immigrati integrati nel tessuto cittadino». Il vicesindaco Pietro Piciocchi definisce la deportazione degli ebrei genovesi «la pagina più vergognosa della storia della città» e invita a farsi parte attiva per scongiurare il ritorno «di vecchie e nuove follie: guardiamo a coloro che attraversano l'esperienza della sofferenza e della solitudine, nuova e terribile forma di emarginazione, anche nella nostra città. Stiamo loro vicino con un sorriso, una parola di speranza e di amicizia». Gli applausi spontanei interrompono più volte l'intervento di Alberto Rizzerio del Centro Primo Levi, dedicato al ricordo di Piero Dello Strologo: «Piero era nato due anni prima delle leggi razziali, non poteva andare a scuola con i suoi coetanei. Era una legge dello Stato e bisognava rispettarla. Ma le leggi che creano fratture sociali non nascono di punto in bianco, prima c'è la preparazione di un humus culturale per renderle accettabili. Ogni giorno si sposta più in là la linea rossa, sino a trovarci sull'abisso». A concludere gli interventi, un commosso Filippo Biolé, presidente dell'Aned, l'associazione dei deportati, che è impegnato nella divulgazione nelle scuole della memoria dell'Olocausto: «Il corteo della memoria si fa in silenzio perché vogliamo rievocare il silenzio di chi, dopo avere pianto e pregato, si trovava sui carri bestiame che venivano inviati ai campi di sterminio. Ma questa sia una marcia di vita, di libertà e di uguaglianza».

«Il 3 novembre 1943 gli ebrei genovesi con un inganno furono fatti venire in sinagoga e poi deportati, prima nel carcere di Marassi, poi a San Vittore e a Milano furono caricati sullo stesso treno verso Auschwitz che probabilmente fu costretta a prendere la senatrice Segre», ricorda la presidente della Comunità ebraica di Genova Raffaella Petraroli Luzzati. «Ricordare è una necessità, non è solo un dovere di rispetto, è un momento di riflessione per capire il presente», sottolinea il rabbino capo della comunità genovese Giuseppe Momigliano. Don "Fully" Doragrossa porta i saluti dell'arcivescovo padre Tasca: «Fare memoria significa volgere i ricordi al futuro. Riconoscere l'esempio di chi si oppose, di chi ha salvato vite, di chi ha costruito un futuro di pace. A noi tocca difendere la giustizia e costruire fraternità».

Tratto da "Il Secolo XIX"