Quando pensiamo alle trasformazioni demografiche in atto, è difficile non farsi prendere da un senso di ineluttabilità: invecchiamento, declino demografico e spopolamento ci appaiono come fenomeni imponenti, non contrastabili, anche in considerazione delle politiche restrittive nei confronti dei migranti portate avanti a livello globale negli ultimi anni. Una ineluttabilità scritta nero su bianco nel pur importante e appropriato documento dedicato alla strategia per le aree interne del governo. Ben 13,5 milioni di italiani vivono nelle aree interne, quasi un quarto dei nostri cittadini vive in un territorio pari al 60% dell’intera superficie nazionale. Possibile non si possa far altro che accompagnare in una sorta di eutanasia tanta parte del Paese, della sua storia e identità?
Prima di dare una risposta è importante connettere questa demografia con altri aspetti, quello del pensionamento e del mercato del lavoro. Il 2025 rappresenta una data previdenziale importante: si entra infatti nel tempo che vedrà, per i prossimi 15 anni, il pensionamento e quindi il ritiro dal mercato del lavoro dei cosiddetti baby boomer, le generazioni nate cioè negli anni '60 e nella prima metà dei '70. La parabola lavorativa di queste coorti modificherà drasticamente il mercato del lavoro: si passerà da 2,2 milioni di nuovi pensionati nel quinquennio 2020-2024 a oltre 3 milioni tra il 2025 e il 2029 e nei due quinquenni successivi. Secondo l’Istat, la fascia di popolazione in età lavorativa si ridurrà passando da circa 37,3 milioni nel 2023 a meno di 36,6 milioni nel 2029, con una perdita netta di circa 700 mila persone entro il 2030. In percentuale, il peso della fascia 15-64 anni passerà dal 63% circa al 58-59% della popolazione totale.
Secondo le stime ufficiali, tra il 2025 e il 2029 il fabbisogno di nuovi occupati è però in crescita, compreso tra 3,3 e 3,7 milioni di lavoratori, principalmente per sostituzione (pensionamenti e turnover). Quindi anche considerando gli (aleatori) vantaggi del bilancio migratorio, si conferma che avremo nel migliore dei casi 700 mila posti mancanti. È facile intuire che a un declino demografico corrisponderà un declino economico che non potrà non accelerare la ripresa, peraltro già in atto, dei flussi migratori dei giovani dal Paese.
Un ultimo tassello di questo non felicissimo quadro è rappresentato dai giovani Neet: a Cernobbio si è giustamente evidenziato che 1,4 milioni di disoccupati sotto i 30 anni rappresentano una ferita inaccettabile, con un peso economico pari a circa 24 miliardi tra costi diretti e indiretti, come una manovra finanziaria. Si tratta di donne e giovani del sud e, aggiungo io, delle aree interne, che non hanno ricevuto una formazione adeguata e languono in una sorta di terra di nessuno.
Non possiamo arrenderci a questa Italia che avanza, anzi che arretra. Occorrono idee nuove e una prospettiva nuova del Paese e a tutti è chiesta una risposta per un domani diverso, e credo che la politica e la società civile debbano aprire presto un cantiere delle idee e delle proposte percorribili. Io ne vorrei offrire tre.
Ripensare la vecchiaia. Non è l’età del declino e del riposo a tutti i costi. Ma dobbiamo uscire dal dualismo pensione o lavoro e permettere agli over 65, anzi incoraggiarli a forme di lavoro liberamente scelto, tutelato, proporzionato alle forze. Si può essere pensionati e lavoratori, nello stesso tempo, ma occorre un piano e una programmazione perché non accada da noi quanto avviene in Paesi, come la Corea, dove gli anziani sì lavorano per quasi il 50% ma in impieghi estranei alla propria storia ed esperienza e per lo più di infimo livello, lavori manuali e spesso irregolari a causa del precipitare del livello delle pensioni. Non riteniamoci immuni da questo destino. L’invecchiamento attivo può essere un grande argine anche e soprattutto nei piccoli centri. Fa bene alla salute, include e non lascia isolati, si ottiene attraverso il moltiplicarsi di occasioni di lavoro, di studio e apprendistato, nella creazione di spazi sociali adeguati.
Ma gli anziani delle aree interne vanno anche sostenuti: bisogna avviare un grande piano di formazione per i Neet che vivono nelle aree interne perché sostengano gli anziani che vi soggiornano! Renderli caregiver di comunità, in una definizione che comprenda idealmente la cura degli over 65, dei paesi in cui vivono, del loro patrimonio artistico, storico, culturale paesaggistico. Diamo ai Neet questa grande missione! Una nuova alleanza tra giovani e anziani. Abbiamo per troppo tempo subito le conseguenze di un’idea miope che mette in contrapposizione giovani e anziani sul piano del lavoro, quando invece occorre scoprirne le incredibili potenzialità di sinergia. Gli anziani affianchino e istruiscano i giovani e questi li sostengano nel lavoro e nella vita. Diventiamo un paese di alleanze e non di esclusioni!
In questo senso l’accoglienza dei migranti, attraverso forme di rigoroso controllo e un approfondito lavoro di integrazione, come avviene per esempio nei corridoi umanitari di Sant’Egidio, rappresenta un contributo importante. Quanti sindaci di piccoli paesi mi confidano che le loro scuole rimangono aperte grazie all’arrivo di una famiglia di nuovi italiani! E quanti campi restano incolti perché non si è voluto regalarli a chi cerca lavoro! Ma anche qui la politica prenda coscienza delle possibilità che una società civile nelle aree interne offre in termini di accoglienza e integrazione.
Riportare sul territorio e nelle abitazioni la sanità e il welfare. Con la legge 33/2023 si è avviato un percorso importante per riportare la cura dove serve: a casa delle persone e sul territorio. Investire in questi contesti vorrà dire ridurre la spesa ospedaliera e residenziale in modo significativo, spero che le sperimentazioni della legge lo dimostrino presto in modo inequivocabile. Sappiamo però per certo che scegliere di curare gli anziani in ospedale non solo è costoso ma spesso anche controproducente: le evidenze su come i ricoveri incidano negativamente in termini di crescita della disabilità e non autosufficienza sono ormai molto abbondanti. Che la cura torni a essere un diritto dovere di tutti, in modo diffuso, non un ghetto specialistico e tecnologizzato che peraltro non piace proprio a nessuno, vista la fuga di medici e infermieri da questi contesti.
Ho citato tre possibili visioni ma vorrei che fossimo insieme a gettare il cuore oltre l’ostacolo: politica, società civile, industriali, case farmaceutiche, associazioni professionali, Comuni e Aziende sanitarie, scuola e università, sindacati e Terzo Settore, tutti avranno un posto e una responsabilità in questo grande cantiere di trasformazione umana e ambientale, industriale e culturale per l’Italia che verrà. La Chiesa, così presente in ogni ambito, dia cuore e forza a questa grande avventura. Bisogna crederci e saper lavorare insieme.
[ Vincenzo Paglia ]