Il ruolo della comunità internazionale
Editoriale di Marco Impagliazzo
La sorpresa della tregua a Gaza, a cui quasi nessuno credeva più, è avvenuta nel passaggio della presidenza americana da un'amministrazione all'altra. Il difficile negoziato è durato mesi sotto la guida degli uomini di Biden, producendo un processo molto complesso, suddiviso in tre tappe con un'infinità di passaggi intermedi. Non siamo ancora alla pace ma è un inizio fragilissimo che va sostenuto in ogni modo.
Le prime tre donne rapite sono state liberate. I palestinesi della Striscia dimostrano di crederci tentando un arduo ritorno a casa, che spesso significa trovare solo un cumulo di macerie. Resta il fatto che si tratta di una situazione traballante, dove errori sono possibili ad ogni passo, con il rischio di far naufragare tutto, come d'altronde sperano i falchi delle due parti. L'operazione "Muro di ferro" lanciata ieri dall'Idf a Jenin e l'invito di Hamas a reagire ne sono un esempio.
Il neopresidente Trump ha voluto dare il suo endorsement a un'intesa non elaborata dalla sua amministrazione, inviando ancor prima della presa di possesso il suo rappresentante personale a colloquio con il premier israeliano Netanyahu. Il messaggio è stato ascoltato e non poteva essere altrimenti: non conveniva al governo israeliano mettersi di traverso al suo più importante alleato ancor prima dell'insediamento. Donald Trump cercherà di tener viva la speranza di un passaggio dalla tregua al negoziato vero e proprio, nello spirito degli accordi di Abramo che avevano riavvicinato una parte consistente del mondo arabo a Israele.
Le prime tre donne rapite sono state liberate. I palestinesi della Striscia dimostrano di crederci tentando un arduo ritorno a casa, che spesso significa trovare solo un cumulo di macerie. Resta il fatto che si tratta di una situazione traballante, dove errori sono possibili ad ogni passo, con il rischio di far naufragare tutto, come d'altronde sperano i falchi delle due parti. L'operazione "Muro di ferro" lanciata ieri dall'Idf a Jenin e l'invito di Hamas a reagire ne sono un esempio.
Il neopresidente Trump ha voluto dare il suo endorsement a un'intesa non elaborata dalla sua amministrazione, inviando ancor prima della presa di possesso il suo rappresentante personale a colloquio con il premier israeliano Netanyahu. Il messaggio è stato ascoltato e non poteva essere altrimenti: non conveniva al governo israeliano mettersi di traverso al suo più importante alleato ancor prima dell'insediamento. Donald Trump cercherà di tener viva la speranza di un passaggio dalla tregua al negoziato vero e proprio, nello spirito degli accordi di Abramo che avevano riavvicinato una parte consistente del mondo arabo a Israele.
Per andare oltre la fragile tregua è necessario che si concretizzino vari fattori. Innanzi tutto, che nasca una nuova leadership palestinese unitaria, per non lasciare Hamas a rappresentare tutti. Esistono almeno una dozzina di fazioni politiche palestinesi che nessuno è ancora riuscito ad unificare con successo. È possibile che l'amministrazione Trump ci si dedichi con esiti migliori. In secondo luogo, il presidente dovrà offrire garanzie all'attuale maggioranza di governo israeliana: le prossimità ideologiche sono note ma non bastano per la sua tenuta. Inoltre, non dovrà deludere gli alleati (più o meno fedeli) degli Usa in Medio Oriente, in particolare Arabia Saudita e Turchia. I primi si sono detti disposti a contribuire alla ricostruzione di Gaza e attendono una risposta. I secondi stanno mantenendo stabilità e moderazione nella nuova Siria: un interesse che accomuna Washington e Gerusalemme. Inoltre, andranno rassicurati gli altri alleati, indeboliti da vari fattori, come Egitto e Giordania la cui stabilità è sempre a rischio. Certamente l'indebolimento dell'arco sciita - Iran e Hezbollah - favorisce la presenza americana nell'area e rafforza lo stesso Netanyahu.
L'istinto di Trump e della sua coalizione sarebbe l'isolazionismo, dottrina che in America ha una storia e che in questo momento rappresenta una bandiera per il nuovo presidente. Lo ha detto molte volte e lo ha ripetuto all'inauguration: dazi, rientro della manifattura, consumo in proprio dell'energia ecc. Nel suo discorso Trump non ha mai citato gli alleati europei né fatto distinzioni: l'America intende presentarsi al mondo da sola come il paese più forte.
Tuttavia, la storia si sta già incaricando di spingerla fuori da se stessa. Da Donald Trump molti si aspettano infatti che favorisca la pace anche in Ucraina, come a Gaza. La seconda liberazione di ostaggi è prevista per il prossimo week-end mentre dalle carceri israeliane sono già usciti un centinaio di detenuti palestinesi. Sono segni incoraggianti: è vero, fragilissimi, ma almeno esistono e partendo da questi si può costruire qualcosa di più duraturo per la regione. In un mondo caotico, dove da tempo prevalgono la contrapposizione e lo scontro, la tregua di Gaza è un primo segnale in controtendenza.
Sarebbe colpevole guardarlo con spirito di rassegnazione. Occorre al contrario custodirlo e accompagnarlo con tutte le risorse possibili di cui la Comunità internazionale non manca. Prima di tutto lo dobbiamo alle popolazioni che hanno finora sofferto troppo per la guerra, come ha ricordato Papa Francesco nell'Angelus di domenica scorsa: «Sia gli israeliani che i palestinesi hanno bisogno di chiari segni di speranza: auspico che le autorità politiche di entrambi, con l'aiuto della Comunità internazionale, possano raggiungere la giusta soluzione per i due Stati. Tutti possano dire: sì al dialogo, sì alla riconciliazione, sì alla pace».
L'istinto di Trump e della sua coalizione sarebbe l'isolazionismo, dottrina che in America ha una storia e che in questo momento rappresenta una bandiera per il nuovo presidente. Lo ha detto molte volte e lo ha ripetuto all'inauguration: dazi, rientro della manifattura, consumo in proprio dell'energia ecc. Nel suo discorso Trump non ha mai citato gli alleati europei né fatto distinzioni: l'America intende presentarsi al mondo da sola come il paese più forte.
Tuttavia, la storia si sta già incaricando di spingerla fuori da se stessa. Da Donald Trump molti si aspettano infatti che favorisca la pace anche in Ucraina, come a Gaza. La seconda liberazione di ostaggi è prevista per il prossimo week-end mentre dalle carceri israeliane sono già usciti un centinaio di detenuti palestinesi. Sono segni incoraggianti: è vero, fragilissimi, ma almeno esistono e partendo da questi si può costruire qualcosa di più duraturo per la regione. In un mondo caotico, dove da tempo prevalgono la contrapposizione e lo scontro, la tregua di Gaza è un primo segnale in controtendenza.
Sarebbe colpevole guardarlo con spirito di rassegnazione. Occorre al contrario custodirlo e accompagnarlo con tutte le risorse possibili di cui la Comunità internazionale non manca. Prima di tutto lo dobbiamo alle popolazioni che hanno finora sofferto troppo per la guerra, come ha ricordato Papa Francesco nell'Angelus di domenica scorsa: «Sia gli israeliani che i palestinesi hanno bisogno di chiari segni di speranza: auspico che le autorità politiche di entrambi, con l'aiuto della Comunità internazionale, possano raggiungere la giusta soluzione per i due Stati. Tutti possano dire: sì al dialogo, sì alla riconciliazione, sì alla pace».
[ Marco Impagliazzo ]