In Mozambico per umanizzare le carceri

In Mozambico per umanizzare le carceri

I progetti della Comunità di Sant'Egidio
«Umanizzare le carceri». È questo il senso - ma anche l'obiettivo - che sta alla base dell'aiuto umanitario di Sant'Egidio all'interno degli istituti penitenziari in Mozambico, dice in una conversazione con «L'Osservatore Romano» la responsabile della Comunità a Maputo, Maria Chiara Turrini. «Anche perché - aggiunge - sembra una ovvietà ma non lo è, purtroppo: coloro che vivono la detenzione sono persone, e come tali vanno guardate e assistite. Guardare in modo diverso i carcerati umanizza il carcere stesso, compreso chi vi lavora, come le guardie penitenziarie, trasmettendo loro un senso nuovo di svolgere il proprio servizio».
Il Mozambico è un Paese che l'organizzazione con sede nel cuore di Trastevere, a Roma, ben conosce fin dai primi anni Ottanta, e per il quale si è spesa a livello internazionale fino alla firma degli accordi di pace del 4 ottobre 1992. Il suo sistema penitenziario versa oggi in condizioni critiche, in particolare «per il sovraffollamento, che incide sull'igiene delle persone, l'insorgenza di malattie contagiose, come quelle respiratorie o della pelle, la scarsità di cibo e di un'adeguata alimentazione. E questi problemi mettono a rischio il mantenimento di standard minimi di rispetto dei diritti umani».
La capacità delle prigioni a livello nazionale è stimata intorno agli 8.000 posti, mentre le presenze (dati di fine 2023) ammontano a circa 25.000. Ciò fa sì che molto spesso «manchino non solo i letti, ma proprio lo spazio per sdraiarsi: e così i detenuti devono fare i turni la notte per trovare un po' di sollievo, e alcuni sono costretti a utilizzare addirittura le latrine per provare a dormire», è l'allarme di Turrini.
«Il nostro lavoro, pertanto - spiega - si svolge in una molteplicità di ambiti. Come Comunità visitiamo regolarmente circa 40 istituti di pena, fornendo soprattutto assistenza personale. Ciò significa anche semplicemente incontrare i carcerati, farli uscire dalla cella, stare con loro, aiutarli nei loro bisogni concreti. Moltissimi si trovano lontani dalle rispettive città o abitazioni, sono soli. Noi cerchiamo di star loro vicino come possiamo, per esempio portando aiuti materiali, cibo, vestiti, prodotti igienici. In diverse occasioni forniamo assistenza legale, soprattutto a coloro che non sono in grado di pagarsi un avvocato o quando ci accorgiamo che alcuni processi sono incagliati».
Poi ci sono progetti specifici di formazione professionale o alfabetizzazione. «Negli anni abbiamo dato avvio ad attività nel settore della panificazione, della produzione di utensili di latta, dell'allevamento di pesci, anche per consentire a chi esce, una volta fuori dal carcere, di avere un lavoro». Sant'Egidio, per favorire la ristrutturazione delle infrastrutture, spesso fatiscenti, contribuisce, inoltre, in partnership con le autorità governative locali e con imprese del territorio, «alla costruzione di presidi sanitari, come le infermerie, e di serbatoi per l'acqua potabile, alla realizzazione di bagni, al ripristino del sistema fognario».
Infine, c'è l'assistenza propriamente spirituale, svolta con la collaborazione della Chiesa locale, attraverso le celebrazioni liturgiche e gli incontri di preghiera, «ma non solo: si organizzano tutti quei momenti di comunione che caratterizzano la vita dei fedeli anche in luoghi difficili come la prigione». Da ultimo, è nata l'iniziativa "Liberare i prigionieri", già sperimentata anche in anni passati, che coinvolge nella sua realizzazione direttamente i detenuti, «anche quelli delle carceri italiane ed europee visitate dalla Comunità». In Mozambico, infatti, attraverso il pagamento di una cauzione è possibile liberare coloro che hanno scontato la maggior parte della pena oppure che sono malati o anziani. In molti però non hanno le possibilità economiche per poterlo fare. «Così, nel carcere di Beira, seconda città del Paese situata sulle cose dell'oceano Indiano, grazie al contributo dei detenuti in Germania e di altri, è stato possibile attivare questa iniziativa liberando circa 50 prigionieri che soddisfacevano determinati criteri. E questo, dice Turrini, è anche un modo per far sì che i detenuti partecipino alla vita degli altri: è un impegnarsi che dà dignità sia a chi viene liberato sia a chi contribuisce alla liberazione».
Perché, alla fine, conclude, «non c'è nessuno così povero che non possa aiutare gli altri».

[ Roberto Paglialonga ]