Si terrà a Roma, dal 26 al 28 ottobre, il 39° incontro nello “spirito di Assisi” promosso dalla Comunità di Sant’Egidio. È un pellegrinaggio che non si è mai interrotto, dal 1986, e che ha coinvolto leader di religioni diverse, attraversando stagioni difficili, segnate dalla crescita dei conflitti e dalla crisi del dialogo.
Nel nostro tempo, che accetta la guerra come una inevitabile compagna della storia umana, si è accesa la speranza dell’accordo su Gaza firmato a Sharm el Sheik, per cui dobbiamo essere grati al presidente Trump e a tutti i negoziatori che si sono spinti oltre un limite che pareva insormontabile: quello di un dialogo fra palestinesi e israeliani. È un accordo fragile ma decisivo, che porta con sé un messaggio: la pace è possibile. Si smette di morire; speriamo davvero che un giorno si smetta anche di odiare.
Noi crediamo che la pace sia possibile e lo crediamo anche durante le guerre: bisogna parlare di pace sempre, senza mai rassegnarsi anche quando i tempi sono bui.
È questo il senso dell’incontro di Roma, per cui abbiamo scelto il titolo “Osare la pace”. La pace va osata anche quando tutti attorno dicono che è impossibile, ingenuo o inutile. Ripeterlo non è inutile.
“Osare la pace” è dar voce a un immenso popolo della pace, attraverso i leader religiosi e rappresentanti della cultura e delle istituzioni dal mondo intero. E siamo grati a Papa Leone XIV, che ha confermato la sua partecipazione alla cerimonia finale al Colosseo martedì 28 ottobre. Come pure al presidente Sergio Mattarella, che interverrà all’assemblea inaugurale all’Auditorium Parco della Musica.
Abbiamo visto in questi mesi tanti giovani manifestare per la pace: è bello che si torni a pensare alla pace, che si gridi per la pace, anche al di là delle ovvie strumentalizzazioni politiche. Esiste una domanda di pace nel mondo, spesso inascoltata. A Sant’Egidio ascoltiamo questo desiderio di pace negli angoli più lontani del mondo laddove ci porta il nostro impegno con i poveri e per la pace.
Sant’Egidio ascolta il desiderio di pace nei campi profughi dei siriani in Libano o degli afgani di cui nessuno si ricorda più; tra i bambini delle scuole della pace in Pakistan; nelle case dell’amicizia e tra gli anziani in Italia; tra i giovani di strada in Africa. C’è un immenso popolo della pace che cerca di farsi sentire, che cerca padri e madri per esistere.
La pace è sempre possibile: in questi terribili anni di guerra, anni in cui il conflitto è stato sdoganato come “situazione normale”, come strumento (e non come ingranaggio perverso), Sant’Egidio non ha mai perso la speranza di pace e ha continuato a lavorare per le situazioni di conflitto: penso al Centrafrica, al Sudan, al Sud Sudan, alla Colombia e ad altre crisi. Anche se non è possibile risolverle subito, è certamente necessario restare lì con pazienza e attendere il momento della svolta, che può sempre giungere. Così com’è accaduto in questi giorni per Gaza.
In questi anni è stato spesso ripetuto un messaggio: che la guerra è un destino e che più che fermarla occorre vincerla. Noi non crediamo a questa retorica della vittoria, che tra l’altro non arriva mai, come dimostrano le tante guerre di questi decenni. Crediamo piuttosto alla forza della preghiera per la pace, alla forza dei legami che si creano tra uomini e donne di buona volontà che cercano di vivere assieme anche se diversi.
È questo il messaggio di “Osare la pace”: osare sempre di più e credere che convivere sia il destino del mondo. Sono cose che abbiamo già sentito tutti ma che occorre ripetere perché la retorica della guerra giusta, vinta o inesorabile è molto forte.
Così come non esiste guerra santa non esiste nemmeno guerra giusta, perché la sola vera giustizia risiede nella pace; perché solo la pace è santa. Le macerie di Gaza stanno li a testimoniarlo, così come quelle dell’Ucraina. Sant’Egidio ha un’esperienza diretta della guerra: centinaia di nostri fratelli ucraini stanno sotto le bombe e lavorano instancabilmente - e direi eroicamente - per gli sfollati e per chi ha perso tutto. Li visitiamo e li aiutiamo con perseveranza. Non parliamo cioè di guerra da lontano, con la sola enfasi delle parole.
Anche molte altre nostre comunità vivono in situazioni belliche. Basta pensare a quella del Kivu, a Goma, città occupata dai ribelli del M23 e posta sulla linea del fronte di un altro conflitto molto lungo, iniziato nel 1996 (se non si vuole contare anche il genocidio ruandese del 1994). In quella città un membro della comunità di Sant’Egidio, Floribert Bwana Chui, fu ucciso nel clima di guerra e corruzione nel 2007 perché, da doganiere, non volle far passare un carico di cibo avariato e pericoloso e non si lasciò corrompere. “Così fan tutti”, poteva dire, ma lui non volle e decise di resistere al male.
Floribert è stato beatificato da papa Leone il 15 giugno scorso: martire della giustizia. Era un giovane africano come ce ne sono tantissimi: alla ricerca di un futuro di pace e prosperità per il proprio paese.
In genere pensiamo che la pace e la prosperità nei paesi poveri come l’Africa non sia possibile, ma Floribert sognava e lavorava per un futuro grande e prospero per il suo paese. E davanti a chi si rassegnava al conflitto diceva “C’è sempre un altro modo”. Immaginate cosa ciò significhi in una terra dalle centinaia di milizie.
Ecco, è questo il messaggio di “Osare la Pace”: davanti all’abbrutimento del commercio delle armi, del riarmo e della risposta bellica noi diremo “C’è sempre un altro modo”, un modo diverso per risolvere contese e crisi. Un modo umano e non violento.
Marco Impagliazzo
Roma, 10 ottobre 2025