OMELIE

Le icone del nostro tempo sono i volti dei migranti, i loro occhi incerti e gli sguardi sofferenti. Omelia del card. Baldassare Reina alla veglia “Morire di Speranza”

 

Omelia del cardinale Baldassare Reina, vicario di Roma, a Santa Maria in Trastevere in occasione della veglia Morire di speranza

Matteo 25, 31-40
Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: "Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi". Allora i giusti gli risponderanno: "Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?". E il re risponderà loro: "In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me".



Chissà quante volte abbiamo ascoltato questa pagina del Vangelo di Matteo, al capitolo 25, che raccoglie l’ultimo, grande discorso di Gesù. Chissà quante volte lo abbiamo ascoltato, eppure abbiamo sempre bisogno di lasciarci ferire da questa pagina, che ci riporta ai legami di fraternità.
Tutto inizia nella Scrittura con il rapporto di due fratelli, Caino e Abele che, pur sapendo di essere fratelli, non vivono pienamente, almeno uno dei due, non vive pienamente la fraternità. E alla domanda di Dio, posta a Caino per capire cosa fosse avvenuto nei confronti del fratello, Caino risponde dicendo: Sono forse io il custode di mio fratello? E verrebbe da chiedere a Caino: ma come fai a non sapere che sei il custode di tuo fratello? Te lo chiedi, addirittura lo chiedi a Dio, hai bisogno che sia Dio a dirti che sei il custode di tuo fratello?
È la storia di tanti fratelli nella Scrittura, purtroppo segnata da invidie, da guerre, da cattiverie. E arriva fino a Gesù, fino al rapporto tra lui e i suoi discepoli. Ricordiamo tutti l’espressione amara di Gesù quando si trova davanti Giuda: con un bacio tradisci.
E questo discorso di Gesù si colloca all’interno di una grande riflessione, portata avanti dal maestro sulle realtà ultime. Sul giudizio, sulla certezza che arriverà il giudizio di Dio e su quali saranno i criteri di questo giudizio. Ogni volta che rileggo questa pagina mi colpisce la domanda degli uni e degli altri, dei giusti e dei malvagi: Quando mai? Avevo fame, avevo sete, ero forestiero, ero nudo, ero affamato, ero in carcere, quando mai! Cioè: non me ne sono accorto. E ritorna la domanda di Caino: ma sono forse io il custode di mio fratello? Ci devo pensare io a mio fratello? Quando mai? I giusti si pongono questa domanda perché il bene lo hanno fatto spontaneamente, non perché qualcuno avesse ricordato loro che era giusto accogliere lo straniero, dare da mangiare all’affamato o vestire colui che era nudo. Lo hanno fatto spontaneamente, perché avevano nel cuore, nel sangue la fraternità e sentivano il bisogno di nutrirla.

Gli altri se la pongono come domanda perché abituati ai distinguo: ma devo farlo io? Tocca a me? Sono forse io il custode di mio fratello? Allora, se è nudo, se è forestiero, se è straniero, ma me ne devo prendere cura io? Dove è scritto? È sempre colpa degli altri. Allora, se sono in mare o stanno attraversando la rotta balcanica, ci sarà qualcuno che dovrà pensare a questo problema! 
Il fratello diventa un problema, il suo bisogno di vita diventa un problema, il suo bisogno di futuro diventa un problema, il suo grido di speranza diventa un problema. Ciò che è vita diventa un problema e, se incontra l’indifferenza di tanti, la vita si trasforma in morte.

Noi siamo qui questa sera per ricordare i nostri fratelli, che sono morti attraverso le varie rotte, dall’Africa piuttosto che la rotta balcanica, altri viaggi di speranza o disperati. Sono morti perché cercavano la vita, perché avevano bisogno di futuro, di speranza. Avevano sognato, per loro stessi e per le loro famiglie qualcosa di diverso, che non fosse la carestia, che non fosse una guerra tribale, che non fosse la mancanza di lavoro.
Siamo qui questa sera per ricordarli, diverse sensibilità, fedi, religioni, confessioni, ma uniti da questo grido di dolore. Uniti da questo incessante, ininterrotto grido e bisogno di vita, al quale non dobbiamo essere indifferenti. Non dobbiamo e non possiamo, pena vanificare ogni forma di esperienza religiosa e ogni forma di autentica umanità. Perché l’uomo è tale nella misura in cui si accorge dell’altro. Si accorge, si rende conto che c’è. Sono forse io? Quando mai?
È facile farsi queste domande. Siamo uomini, siamo donne, apparteniamo a fedi, a religioni diverse, nella misura in cui ci accorgiamo dell’altro, perché l’altro è ciò che a noi serve per essere. Non solo perché siamo in relazione, ma perché siamo e formiamo un’unica famiglia umana. Fratelli tutti, come ci ha ricordato papa Francesco, da poco ritornato in cielo. Siamo tutti fratelli! 
Allora, in quanto fratelli, siamo responsabili della vita dell’altro. Ne vale della sua vita, ne vale della mia vita e, per chi ci crede, ne vale anche dell’eternità. Qui Gesù ci sta dicendo che ci giochiamo l’eternità nella misura in cui ci accorgiamo dell’altro. Possiamo aspirare a ciò che è più alto, l’eternità, nella misura in cui facciamo spazio all’altro. Senza l’altro non c’è eternità.
Guardate quale grande notizia, quale buona notizia ci ha portato Gesù. Ancora questa verità fa fatica a entrare, a entrare nel nostro vissuto, nelle corde del nostro cuore. Siamo stretti dentro la morsa dell’egoismo, che ci porta a ritenere che i nostri bisogni, solo i nostri bisogni sono legittimi, e noi bastiamo a noi stessi. E più alimentiamo questo ragionamento, più sperimentiamo la morte. È Gesù che invece ci dice: accorgiti dell’altro, perché la tua vita sia piena, sia vera.

L’eternità non è soltanto, la vita eterna non è soltanto ciò che sperimenteremo dopo la morte, ma la vita eterna, nella visione di Gesù, è una vita piena, già al presente. Allora, nella misura in cui io dilato il mio cuore all’altro, dandogli spazio prima ancora che facendo qualcosa per lui o per lei, la mia vita è già un frammento di vita eterna, perché ho seminato altra vita, ho reso possibile altre vite.
Questa è la vera scommessa, fratelli e sorelle. E oggi la nostra preghiera, lo si diceva nella ammonizione iniziale, la nostra preghiera diventa, vuole essere, un appello alle coscienze, alle coscienze di tutti. Queste coscienze che, come ha ricordato papa Francesco nel suo primo viaggio apostolico a Lampedusa, queste coscienze che si stanno un po' addormentando, si stanno anestetizzando. Così lui ha esordito in quell’omelia.
Un appello alle coscienze, perché l’altro sia rispettato, l’altro sia amato, l’altro sia accolto, all’altro sia dato diritto di cittadinanza, gli sia data la possibilità di futuro. Appello alle coscienze, a noi stessi, perché non siamo migliori di altri. E attraverso di noi, se davvero crediamo a questo messaggio eterno, attraverso di noi a tanti altri. Per creare una mentalità, una cultura dell’accoglienza. 
Dell’accoglienza, dell'integrazione, del rispetto. A partire da noi, arrivare agli altri, per fare in modo che sia una cultura, una mentalità condivisa, alimentata attraverso il confronto anche con chi ha opinioni diverse. E attraverso la mentalità passare poi a delle scelte politiche, nel senso ampio del termine. Scelte che creino le condizioni affinché tutti, soprattutto i più fragili, siano rispettati.
Allora non preghiamo soltanto per i morti questa sera, ma preghiamo per tutti coloro, e potrebbe capitare anche a noi, le cui coscienze si possono addormentare. Preghiamo perché la nostra umanità non sia miope, non si rinchiuda dentro certi confini, ma sia una grande comunità, una grande famiglia, in cui ci si fa carico delle sofferenze di altri. Perché sappiamo che quelle sofferenze non sono soltanto di altri, ma forse qualche responsabilità ce l’abbiamo un po' tutti. Allora ci facciamo carico delle gioie, dei dolori, delle sofferenze gli uni degli altri.

E tutto parte dal cuore, tutto parte dallo sguardo. Entrando qui, così come fuori, mi ha colpito questa quasi sovrapposizione tra le icone e le icone di oggi. Le icone sacre che tutti noi veneriamo e attraverso cui riusciamo a pregare, e le icone del tempo presente, volti, occhi, sguardi sofferenti, sguardi incerti. 
Quelli sono nostri fratelli. Sono persone che attraverso la finestra di una barca di fortuna, forse intravedendo un pezzo di terra, un lembo di terra da qualche parte, avranno pensato: c’è vita anche per noi! E forse da lì a qualche minuto il gommone di fortuna o la barca di fortuna su cui viaggiavano si è capovolta, e si sono trovati in un istante dal guardare un lembo di terra, al sentirsi soffocati, annegati in mare. Sono nostri fratelli, sono le icone di oggi. Attraverso queste icone possiamo pregare? Sì! Perché lì c’è il volto di Dio.
Sarebbe stato moto più semplice se Gesù avesse detto: ogni volta che avete fatto queste cose, o non le avete fatte, come se non le aveste fatte a me. Sarebbe stato più semplice un rimando di questo tipo. E colpisce invece come Gesù si identifica con questi fratelli: L’avete fatto a me. Senza nessuna forma di mediazione, senza nessun concetto da frapporre, pensando o lasciando spazio a delle interpretazioni, per cui può essere che è lui, che non è lui, a condizione che. No, l’avete fatto a me! Perché io ero nudo, io ero forestiero, io ero affamato, io ero straniero, io ero carcerato.
Gesù dice: io mi indentifico con questi, io sono loro. E sarebbe bello se questa sera tutti noi sposassimo la logica del maestro: io sono loro. Io sono nudo, io sono affamato, io sono forestiero, io sono straniero, io sono carcerato. Mi colpiva sempre quando papa Francesco andava a visitare i carcerati, per lo più il Giovedì Santo, ripeteva sempre, lo ha fatto fino all’ultimo Giovedì Santo, visitando i carcerati del Regina Coeli, ripeteva quasi sempre la stessa frase: ogni volta che entro in un carcere mi chiedo, perché voi e non io?
È un processo di identificazione, perché io, ognuno di noi siamo questi nostri fratelli. Non solo potevamo essere, perché non abbiamo fatto nulla di diverso, da meritare una vita diversa. La Provvidenza ha voluto così, ma potevamo benissimo essere loro. Anzi, siamo loro, nella misura in cui ci facciamo carico delle loro sofferenze e delle loro speranze.
Ecco, davvero raccogliamoci in questa preghiera, che ci permetterà anche di ascoltare le voci di nostri fratelli e di nostre sorelle. Chiediamo al buon Dio che accolga coloro che sono morti in mare e nelle altre rotte, di accogliere tutti nella sua casa di bontà e di eternità. Ma che il buon Dio ridesti in tutti noi una coscienza viva, una coscienza di Vangelo, perché possiamo ragionare come ci ha insegnato Gesù, attraverso il comandamento nuovo dell’amore: Amatevi gli uni gli altri, come io ho amato voi.