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"Fissare lo sguardo sulle frontiere e andare al di là dell’abisso". Il commento di Andrea Riccardi al Vangelo di Luca 16,19-31, nella Giornata della memoria delle vittime dell'immigrazione

Luca 16, 19-31

Cari fratelli e care sorelle, cari amici. Soprattutto, cari fratelli che siete qui in Italia, che venite da altri paesi e che avete conosciuto il viaggio non facile dell’emigrazione.
Sono passati 11 anni da quella mattina presto in cui una nave, stracolma di eritrei ed etiopici, si ribaltò a mezzo chilometro dall’isola di Lampedusa. Era quasi arrivata. Ci furono 366 morti - alcuni superstiti sostengono che fossero molti di più, ma i loro corpi non furono trovati. La maggior parte di loro erano eritrei, e ancora oggi gli eritrei continuano a fuggire, sulle rotte africane, spesso prigionieri in Libia. Un dramma che, purtroppo, non finisce.
 Nel 2015 il Parlamento italiano proclamò la Giornata nazionale della memoria delle vittime dell’emigrazione. Quella proclamazione, certo, non ha fatto finire il numero delle vittime. Infatti, si muore ancora lungo le rotte dell’emigrazione, si muore nei deserti, si muore in mare.
 Si soffre, in Libia e in Tunisia, dove agiscono gruppi o addirittura milizie criminali, che torturano, stuprano, ricattano i migranti. E quanti, in tutto il Mediterraneo, guadagnano su di loro, con un commercio criminale che è divenuto una delle più fiorenti industrie.
Tra gennaio e settembre 2024 si contano più di 1500 morti e dispersi nel Mediterraneo. E dal 1990 hanno perso la vita più di 66mila persone, per raggiungere l’Europa. Il Mediterraneo, come dice papa Francesco, è diventato un cimitero. Ma i caduti, lo sappiamo, sono molti di più, e restano in tanti luoghi, senza sepoltura e senza memoria. Perduti, sulla terra o in mare.
A loro, a chi è stato recuperato senza vita, questa sera noi dedichiamo il ricordo e la preghiera. Perché - dobbiamo dirlo - la coscienza, lo sguardo di molti sono anestetizzati. Cioè, molti in Europa non si accorgono che siamo vicini a Lazzaro, al povero Lazzaro di cui parla il Vangelo, in questo caso il migrante, che giace o muore alla porta, che desidera sfamarsi di quello che cade dalla confortevole mensa a cui si mangia.
Quella che abbiamo letto si chiama, con un nome un po' strano, “la parabola del ricco epulone”, che sarebbe a dire “mangione”. Di un ricco, però, badate bene, che vuole comandare anche da morto, perché è abituato a comandare e a non vedere gli altri. Tanto che dice al padre Abramo: “Di’ a Lazzaro che vada dai miei fratelli a spiegare loro quello che è successo”. Abramo gli risponde: “Tra voi e noi è stabilito un grande abisso”. In realtà, quell’abisso c’era già prima tra il ricco senza nome e il povero Lazzaro. Il ricco non aveva buttato il suo occhio fuori dalla porta, sull’abisso. Amici miei, bisogna sempre fissare lo sguardo sulle frontiere e andare al di là dell’abisso.

Il povero - e oggi vediamo in lui il disperso in mare, chi fa i viaggi pericolosi della migrazione - nel Vangelo ha un nome, si chiama Lazzaro. Invece, il ricco non ha nemmeno un nome, è dimenticato. Eppure, poteva essere una personalità, poteva invitare gente importante alla sua mensa, ma è dimenticato. Per il Signore Dio esiste Lazzaro, e lo ricorda bene. Lazzaro ha un nome.
 E abbiamo voluto mettere questa sera le foto, che sono qui, i nomi di quanti sono caduti e morti a Lampedusa. Perché quei nomi non sono dimenticati, quelle persone hanno un nome, per il Signore Dio quelle persone esistono e sono care.
 E vediamo che un poveretto come Lazzaro è accolto tanto bene da Abramo, che lo conosce. Perché il padre Abramo, a cui si riferiscono volentieri ebrei, cristiani e musulmani, visse di accoglienza degli altri, e fu lui stesso accogliente nel deserto verso chi non conosceva.
 Amici, oggi c’è ancora un abisso tra il nostro mondo e chi spera in una vita migliore. C’è ancora un abisso! Nuove rotte si sono aperte, come le Canarie, dove sono già morte migliaia di persone, mentre le strade dei Balcani sono popolate dai migranti. Ricordare i Lazzari perduti in mare, nei deserti, negli inverni, nelle giornate infuocate, respinti, affamati, braccati, vuol dire affermare che non siamo gente dimentica o anestetizzata.
Noi siamo e vogliamo essere come Abramo, che aprì la sua tenda all’ospitalità. Come Abramo, perché tanti Lazzari, tante persone che vengono da altri paesi, che si sono salvati, tanti che ci hanno raggiunti e vivono tra noi, mostrano che è bello vivere insieme, che vivere insieme è profitto di tutti.
 Ha detto papa Francesco: “Diciamolo con chiarezza, c’è chi opera sistematicamente, con ogni mezzo, per respingere i migranti. E questo è un peccato grave. Respingere è un peccato molto grave”. È un peccato grave contro chi è respinto, fino a rendere complici di morte. È un peccato, certo minore, contro la nostra società, che ha bisogno di loro, che sta bene con loro.
Questo crea il gioco insensato di chiudere. Chiudere quando c’è chi bussa e si avrebbe bisogno di aprire. Perché, amici, accade questo? Perché si chiude? Per paura. Sì, paura del futuro, paura della vita che viene, paura dei giovani che vengono, paura della vita che nasce, perché tutto ruota attorno al mio ego e al mio presente. La paura diventa indifferenza, muro, chiusura, anche ideologia razziale. Morte per loro, ma alla fine asfissia per le nostre società.
Non siamo ingenui, sappiamo che il problema delle migrazioni è di complessa soluzione e va affrontato in tanti modi diversi. I corridoi umanitari sono uno di questi modi. Ma soprattutto, prima di tutto, non bisogna aver paura. Non bisogna aver paura, vivendo la vita come un banchetto e non facendo partecipare gli altri al banchetto della vita. Non bisogna avere paura degli altri, non bisogna avere paura del futuro.
L’emigrazione è un segno del nostro tempo, e i segni dei tempi sono segni di Dio. Noi non siamo nella stagione della paura: noi abbiamo motivi, risorse per sperare; noi abbiamo motivi e risorse per capire chi spera; noi abbiamo motivi e risorse per capire chi sogna e, soprattutto, per non disprezzare i disperati, che è un grave peccato.
E allora, sorelle e fratelli, siamo qui per ricordare un giorno triste di più di 10 anni fa. Ma siamo anche qui, insieme, gente di storie diverse, per affermare con forza che insieme stiamo bene, che siamo amici, che siamo concittadini, che siamo collaboratori al bene comune. E siamo qui per pregare lo Spirito di Dio, che apra i cuori di tutti, finalmente, alla speranza. Perché c’è tanto bisogno di speranza, mentre invece c’è troppa paura. Amen.

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