"Di speranza si continua a morire. E ogni vittima, questa sera siamo insieme a ricordarlo, ha un nome." L'Omelia del Card. Michael Czerny alla preghiera Morire di Speranza

 

 

Omelia del Card. Michael Czerny S.J. alla Preghiera “Morire di speranza"

Basilica di S. Maria in Trastevere 23 giugno 2022

Matteo 25, 31-46


Cari fratelli e sorelle,
si può morire di speranza o morire nella speranza. Non è la stessa cosa. Le due possibilità non si escludono, ma lo scandalo della prima ci fa interrogare sulla seconda.

Si può morire di speranza, nel mondo vecchio che abitiamo, perché non tutti sono liberi di andare dove desiderano, né di vivere come desiderano. I sogni di alcuni – il loro stesso impegno, la loro lotta per una vita dignitosa – sono negati da altri. Per questo ricordiamo i nomi di coloro che, anche quest’anno, nel Mediterraneo sono morti di speranza, cioè a causa della propria speranza. Il “Mondo vecchio” è quello in cui si alimentano le diseguaglianze, i conflitti e l’indifferenza.

Il mondo nuovo, offerto a Israele nell’alleanza perché divenisse accessibile a tutti popoli, è quello in cui Cristo ci precede e da cui ci chiama. Egli corre davanti a noi, come suggerisce la lettera agli Ebrei (Eb 12,1-2), e ci dà il passo, perché non veniamo meno lungo la strada. Nel mondo nuovo, che già fiorisce, regna la speranza. In esso persino la più ingiusta delle morti riceve l’energia di trasformarsi in un inizio.

Avendo ben presente il mondo vecchio, l’annuncio del Vangelo e la testimonianza dei membri del Popolo di Dio sono chiamati a indicare la “novità” di Cristo. Nella Lettera agli Efesini l’Apostolo Paolo esprime questa esigenza della vita di fede invitando i cristiani a “deporre l’uomo vecchio” per “rivestire l’uomo nuovo” (Ef. 4,22-23).

Basta sollevare lo sguardo, in questa basilica, e il Nuovo è davanti a noi. Siede in trono, così come descritto nella parabola del giudizio universale, che abbiamo appena ascoltato. Non possiamo, nella gloria del mosaico, vedere soltanto l’influenza sulla Chiesa di un immaginario di corte, perché l’impero qui annunciato – in realtà – è la messa in discussione di ogni altro potere mondano: temporale, certo, ma anche spirituale. Che cosa avviene per noi e per la terra, se a regnare è il Crocifisso risorto?

Nel profeta Daniele leggiamo: “Guardando ancora nelle visioni notturne, ecco venire con le nubi del cielo uno simile a un figlio d’uomo” (Dan 7,13); “Gli furono dati potere, gloria e regno” (7,14). La notte oscura della storia – ecco l’intuizione profetica! - non si risolve in dolore e terrore, perché il profilo di Colui che viene finalmente dal cielo non è mostruoso, né infernale. Di più Daniele non sa, ma delinea all’orizzonte una figura umana. Per questo, forse, l’evangelista Matteo racconta la morte di Gesù in croce come un’apocalisse: si spegne il sole, è scossa la terra dalle fondamenta, si aprono i sepolcri, il velo che separa sacro e profano si squarcia. Finisce il nostro mondo e appare nel crocifisso quello di Dio. “Ecce homo!”, dice Pilato nel quarto vangelo (Gv 19,5). L’antica intuizione profetica ora si riempie di contenuto, rivelandosi quale umanità che viene dall’alto e salva la terra.

Diventa così più chiaro perché, a pochi giorni dalla passione, Gesù stesso – in parabole – decise di anticipare il futuro: “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri” (Mt 25, 31-32). Metro di giudizio è la sua umanità. O, meglio, il suo diverso potere.
Abbiamo qui una ulteriore sintonia tra il primo e il quarto vangelo, in cui si legge: “Il Padre infatti non giudica nessuno, ma ha dato ogni giudizio al Figlio”; “gli ha dato il potere di giudicare, perché è Figlio dell’uomo” (Gv 5, 22.27). La scorciatoia del diavolo (Mt 4,1), il divisore, viene così smascherata: prometteva un dominio immenso e immediato, risparmiando l’assunzione del cammino e il confronto coi fratelli. Non dimentichiamo: “Lo portò sopra un monte altissimo e gli mostrò tutti i regni del mondo e la loro gloria e gli disse: «Tutte queste cose io ti darò se, gettandoti ai miei piedi, mi adorerai»” (Mt 4,8-9). La tentazione di esercitare il potere come dominio dell’uomo sull’uomo è conseguente alla perdita della relazione con Dio: staccato dal Padre, diviso dal suo creatore, l’uomo non si riconosce più come chiamato a custodire e proteggere il creato e la fratellanza. Così continua anche oggi a configurarsi il potere che logora e che ci logora: porta al vertice e contrappone, separa, opprime, poi fa precipitare. Crea inferno per chi lo subisce, ma anche isola, svuota, imprigiona chi lo detiene. Scompaiono i tratti umani – ognuno di noi è figlio – ed ecco la bestia, il mostro, il demonio.

A giudicarci sarà invece un altro potere, capovolto. Esso non sovrasta, ma discende, e dal basso solleva, crea, esalta tutto ciò che è nascosto o ancora piccolo e confuso. Nulla è più umano, nulla così autenticamente vitale. “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”, confida il Risorto ai discepoli (Mt, 28,18). Siamo stati nutriti, dissetati, vestiti, curati, accolti, visitati nella nostra prigione: sappiamo dunque di che potere si tratta. E conoscendolo in prima persona, come forza che non opprime, ci sarà chiesto se l’abbiamo preferito alla menzogna. “L’avete fatto a me” (Mt 25,40).
 
Gesù, nel suo cammino, ha rifiutato il titolo di re, ha impedito ai demoni di presentarlo come Figlio di Dio e, invece, è ritornato continuamente alla visione notturna di Daniele, parlando esclusivamente di sé come del Figlio dell’uomo. Ma quale figlio e di quale uomo? Anche in questa basilica noi lo contempliamo solo alzando lo sguardo. Egli è infatti un segno che appare nel cielo, che cioè il Padre dona. Dio lo pone di fronte a ogni coscienza non semplicemente come incontro occasionale, come uno fra molti, ma come giudizio sulla vita vissuta, come salvezza o perdizione. Gesù non è tutto e il contrario di tutto, non considera buona ogni cosa e ogni parola, ha piuttosto un’identità, apre una via nuova, fa spazio alle cose di sempre, ma le rende come non le abbiamo mai viste. La forma determinata della sua vita, il profilo di pensiero e di azione da lui scelto – insomma la sua inconfondibile originalità – sono una sovrana indicazione di Dio: «Questo è umano; questo deve essere, questo resisterà alla morte, questa è una vita divina».

I cristiani lo seguono, prendendo la propria croce: non lasciano ad altri le proprie responsabilità, non stanno fuori dai luoghi pubblici, partecipano alle piccole e grandi decisioni. Ci sono. Ci siamo! Sappiamo che, anche se veniamo scartati da chi domina il mondo, o se i nostri sogni vengono infranti, niente è finito: ai margini siamo solo diversamente al centro. Il mondo nuovo, infatti, è iniziato a Nazareth, in periferia, e sul Calvario, fuori dalle porte della città. Non a caso, nella scena rappresentata qui davanti a noi, avviene qualcosa di davvero sorprendente: Colui che siede in trono si sposta a lato, si stringe, per far posto al suo fianco a una di noi. Sì, il Signore fa spazio, gioisce nel condividere la sua sovranità. Il suo cielo è popolato: non al modo di una corte, ma come una fraternità compiuta. “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il Regno preparato
per voi”.

La grande scena del giudizio universale, così, descrive ciascuno svelato per ciò che è stato, non mediante professioni di fede fatte con la bocca, ma nei legami sorti per puro e semplice amore. La fraternità che ci fa regnare, il legame per cui il Signore si sposterà per farci sedere al suo fianco, cresce con le opere di misericordia. Sono le opere di cui ciascuno è capace.

Di speranza si continua a morire. E ogni vittima, questa sera siamo insieme a ricordarlo, ha un nome. A negare quel nome è il male stesso, quello che si cristallizza in strutture di peccato. Noi però siamo sentinelle del mondo nuovo. Ci ricorda papa Francesco che «La speranza è la più piccola delle virtù, ma la più forte. E la nostra speranza ha un volto: il volto del Signore risorto, che viene «con grande potenza e gloria» (Mc 13, 26), che cioè manifesta il suo amore crocifisso trasfigurato nella risurrezione. Il trionfo di Gesù alla fine dei tempi sarà il trionfo della Croce, la dimostrazione che il sacrificio di sé stessi per amore del prossimo, ad imitazione di Cristo, è l’unica potenza vittoriosa e l’unico punto fermo in mezzo agli sconvolgimenti e alle tragedie del mondo».

Il cammino di Cristo, che seguiamo, ha un prezzo personale alto, ma genera bellezza, gioia, unità. “Il Regno di Dio è vicino” (Mt 4,17) e liberandoci dal delirio di onnipotenza ci lega profondamente gli uni agli altri, ci libera la testa e il cuore, così che riusciamo a essere colpiti da ciò che ci sta di fronte come un appello, come un mistero che bussa. Prima di “segni del cielo”, infatti, ci sono offerti “i segni dei tempi”: prima di tutto l’affamato, l’assetato, lo straniero, il malato, il carcerato, l’uomo nudo. È il cuore del giudizio: “Io ero loro”, “L’avete fatto a me”.

Maria, che ha nutrito, dissetato, accolto, visitato e custodito le sofferenze del Figlio e dei discepoli, ci indichi la via per sedere in trono nel mondo nuovo di cui Dio ci vuole eredi.