Fare Pace, il libro sulla diplomazia di Sant’Egidio per essere artigiani di pace nel proprio tempo

Una diplomazia, che è senz'altro "singolare", per molti versi inedita, perché parte dalla conoscenza e dall'impegno in tanti Paesi in cui è presente la Comunità, ma anche dalla consapevolezza che "la guerra è la madre di tutte le povertà".  La presentazione del libro Fare Pace, in un'affollata sala del San Gallicano, a Roma, ha fatto emergere ieri sera la ricchezza del paziente lavoro che Sant'Egidio porta avanti ormai da tanti anni in diverse aree del mondo, come una Comunità che non ha altri interessi se non ottenere la pace attraverso il dialogo, la mediazione, il "rammendo" di tante lacerazioni del tessuto sociale e civile dei popoli che soffrono per i conflitti.
Ad interrogarsi sulla natura di questa azione diplomatica, ormai conosciuta nel mondo, sono stati il responsabile vaticano dei Rapporti con gli Stati, Monsignor Paul Gallagher, il direttore dell'Espresso Marco Damilano, politici e rappresentanti delle istituzioni come Paolo Gentiloni e Antonio Tajani e il fondatore di Sant’Egidio, Andrea Riccardi, moderati dalla giornalista Maria Cuffaro.

E' emersa la convinzione che il lavoro per la pace è troppo importante per essere lasciata solo nelle mani di chi è considerato esperto o professionista del settore, ma che sia una necessità sempre più pressante per i cristiani e per chi vuole impegnarsi personalmente nella via del dialogo. Sant'Egidio, dagli anni Ottanta ad oggi, è diventato un soggetto internazionale capace di mediare tra parti in conflitto in diversi scenari del mondo.

Un’attività diplomatica che non sostituisce l’impegno nelle periferie, ma che al contrario trae proprio dal legame con i poveri le sue motivazioni. La pace in Mozambico è stata firmata a Sant’Egidio il 4 ottobre del 1992, ma - come ha sottolineato Andrea Riccardi - è stato un prolungamento dell’attività umanitaria: ci si accorse, alla fine degli anni Ottanta, che gli aiuti non sarebbero bastati se la pace non fosse venuta presto, dopo un'estenuante guerra civile durata sedici anni.

Marco Damilano, scorrendo le pagine di “Fare Pace” ha osservato quanto sia stato importante avere conservato una “leggerezza istituzionale” che ha coinvolto, in ogni scenario, tutti i livelli della Comunità nel costruire la pace, da chi ha accolto gli ospiti a chi ha cucinato per loro, fino a chi è entrato nelle difficoltà concrete da rimuovere, in una originale partecipazione collettiva con l'unico obiettivo di raggiungere la pace. La via seguita, infatti, è stata quella di conoscere le parti in conflitto e di non ignorare le difficoltà del dialogo: questo impegno disinteressato per la pace - ha sottolineato il direttore dell’Espresso -  “è un modo di stare nella storia da cristiani con un realismo che insegna a essere uomini e donne del proprio tempo”. Occorre - ha notato monsignor Paul Gallagher - accettare che la pace sia un processo: come la democrazia, non è un punto fermo nella storia, quindi è un divenire fatto anche di tentativi e fallimenti, raccontati nel libro: "E' una vocazione preziosa che, sono certo, la Comunità continuerà a sviluppare in futuro con fede e speranza". 
Antonio Tajani ha evidenziato l'importanza dell'ispirazione cristiana e la centralità dell’incontro personale, come è avvenuto per il Mozambico. Si tratta infatti, ha sottolineato, di una costante del viaggio geografico e nella storia che fa compiere il libro, tra mediazioni riuscite e tentativi di pace, dal Mozambico all’Algeria, dal Guatemala al Burundi, dall’Albania al Kosovo, dalla Liberia alla Costa d’Avorio, dal Centrafrica al Togo, dalla Guinea Conakry al Niger.

Sono tante le nazioni coinvolte perché l’impegno della Comunità  per la pace è quotidiano e consiste nel seguire la vita dei paesi e dei suoi popoli, tessendo relazioni. Il realismo della pace richiede di stare sui dossier per molto tempo, anche per i conflitti più remoti e che sembrano più distanti da una soluzione di pace, come è accaduto per la Repubblica centrafricana.

È l’azione di una forza debole, flessibile ma professionale al tempo stesso, che scava canali di dialogo,come ha osservato Paolo Gentiloni e che ha il grande valore, in gergo diplomatico, di “non avere agende segrete”, ossia di non avere interessi diversi se non la pace, cosa che fa guadagnare la fiducia degli interlocutori. L'ex presidente del Consiglio ha anche sottolineato che costruire intese "è molto complicato" mentre "smontarle", purtroppo è molto semplice.

La forza debole della pace ha anche un legame profondo con il lavoro di dialogo tra religioni e culture diverse sviluppato -ad opera della Comunità - negli incontri internazionali di preghiera per la pace, dopo la preghiera di Assisi del 1986 voluta da Giovanni Paolo II, come è stato ricordato durante la presentazione.

Il libro racconta anche del programma DREAM che in undici paesi africani oggi permette la cura dell’AIDS secondo gli standard europei perché si è trattato, a tutti gli effetti, di una “diplomazia sanitaria”, ossia un confronto per superare le resistenze e gli interessi economici che di fronte alla terribile epidemia facevano percorrere la strada della cura solo in Europa e non in Africa. Come è presente nel libro anche il lavoro per superare altre resistenze con l’impegno per l’abolizione della pena di morte.

Andrea Riccardi ha concluso la presentazione del libro citando le parole di Bergoglio cardinale che chiamava a “fare pace” con un “lavoro da artigiani”, e che chiedeva persone pazienti, capaci di persuadere, ascoltare, avvicinare e assumere l’atteggiamento del mediatore e non dell’intermediario, ossia di chi mette del proprio per unire le parti: la pace migliore infatti non è quella che risiede in un testo "perfetto", ma quella che riesce a mettere d'accordo tutte le parti in conflitto, ha sottolineato Riccardi. Che ha concluso riferendosi a quell'antica sapienza ebraica che parla di "rammendo di una realtà lacerata" spargendo "gentilezza amorevole senza aspettare di ricevere qualcosa indietro”.

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