Qualcuno si sarà chiesto, scorrendo il programma, cosa significhi la parola raka e il senso del titolo che ho dato al mio intervento. Lo dirò subito, anche perché la spiegazione costituisce l’incipit della riflessione che stiamo facendo.
Il termine raka e la frase che lo contiene provengono dal Vangelo di Matteo (5, 22), ed è significativo che l’originale testo greco abbia mantenuto questa tipica espressione semitica. Infatti rakà in siriaco – o reqa in aramaico – (Gnilka, p. 237) equivale a un’ingiuria non traducibile letteralmente che significa: “stupido, deficiente, senza cervello, inutile”. Tale insulto era usato nel linguaggio semitico per disprezzare le persone con deficienze mentali e con disabilità fisiche o nel comportamento, e non è irrilevante che il Vangelo di Matteo, subito dopo, stigmatizzi anche l’uso del termine “Pazzo”.
Ma c’è di più. Gesù compie un’operazione paradossale e rivoluzionaria: non solo interdice tali ingiurie ma le considera tanto gravi da equipararle all’omicidio. Infatti, dopo aver detto _ «chi ha ucciso deve essere sottoposto al giudizio» (Mt. 5,22), dichiara che chiunque dice raka al proprio fratello deve essere sottoposto al tribunale supremo (il sinedrio): cosa inaudita, perché nessuno era sottoposto al giudizio per un simile appellativo, peraltro usato correntemente.
Tale presa di posizione di Gesù va collocata all’interno della mentalità del tempo, sia giudaica sia ellenistica, per cui i bambini e ancor più i disabili non avevano alcun valore ed erano considerati mezzi uomini. E non è un caso che in questo contesto si introduca il termine adelphòs, fratello, che nel linguaggio del tempo designa anche il connazionale o il membro della comunità, che nel Vangelo di Matteo acquista un valore più ampio. Pertanto, “Non dire raka al tuo fratello” è, per la prima volta nella storia, una risoluta difesa dei disabili fisici e mentali che infrange l’atavica concezione che li sottoponeva una cultura del disprezzo, le cui conseguenze sono note.
Non è necessario che mi soffermi sulle idee che il modo antico, e non solo il mondo antico, aveva sulla disabilità. E’ sufficiente ricordare l’arcaica Legge romana delle Dodici Tavole, che prescriveva: «Cito necatus insignis ad deformitatem puer esto» (il neonato visibilmente deforme deve essere ucciso subito). Pratica riproposta cinque secoli dopo, nel 41 d.C., nel De ira di Lucio Anneo Seneca: «Noi soffochiamo i feti mostruosi, e anche i nostri figli – se sono venuti alla luce minorati o anomali – li anneghiamo: ma non è ira, è ragionevolezza separare gli esseri inutili dai sani». Nec ira sed ratio, afferma con stupefacente disinvoltura il filosofo dell’etica, mito della cultura classica che, interpretando lo spirito del tempo, contrappone ai “sani” gli “inutili”: inutili al lavoro, al servizio militare, alla politica, al matrimonio e alla procreazione (Fioranelli, pp. 3-4).
Se è pur vero che una forma di protezione dei deboli e dei disabili era prevista nel codice di Hammurabi o nell’Israele antico, solo a partire dai Vangeli avviene il riconoscimento del disabile come persona, e di più come persona che va considerata, sostenuta e amata alla stregua di un fratello. Questo rapporto fraterno non si attua soltanto impedendo l’omicidio, ma è fondato su ciò che si pensa dell’altro, su ciò che si augura e si vorrebbe vedergli assegnato, compresa la piena dignità e il godimento di ogni diritto.
E’ una radicale inversione di mentalità che capovolge i valori sociali consolidati: è noto come i Vangeli affermino la priorità degli ultimi sui primi, dei malati su coloro che si considerano sani e si oppongano alla cultura ufficiale – di cui Seneca è triste esponente – che separa “gli esseri inutili dai sani” e alimenta quella “cultura del disprezzo” per l’altro, il diverso, che avrà il suo più tragico apice nella Shoah e nei campi di sterminio nazisti. Ma ricordiamoci pure che c’è stata «una Auschwitz prima di Auschwitz» – per usare un’espressione di Henri Friedlander –, nel senso che gran parte dei meccanismi di sterminio che regolavano il sistema concentrazionario nazista erano stati ‘rodati’ proprio con “l’eutanasia” di disabili e persone con problemi psichici (Canevaro, Goussot, p. 55) che ne uccise circa 250.000. E’ non è irrilevante che Hitler nel 1941 abbia fermato questo ‘settore’ dello sterminio per la rivolta delle Chiese tedesche e delle famiglie dei disabili, con in testa il coraggioso vescovo Von Galen, le cui prediche furono definite dal ministero della Propaganda nazista come «l’attacco frontale più forte sferrato contro il nazismo in tutti gli anni della sua esistenza» (S. Falasca, ).
Ho citato, per il suo valore paradigmatico e la sua efficacia, questa rivolta esemplare, ma purtroppo circoscritta, che trova le sue radici in quell’umanesimo evangelico che si oppone senza compromessi ai sistemi di esclusione e di repressione, scalza il pregiudizio, interdice il disprezzo, infrange l’atavico orrore della diversità, ribalta i canoni di bellezza e sanità, fino a scompaginare il concetto di intelligenza e di normalità.
Fin qui la spiegazione del titolo. Ma qual è il nesso con l’esperienza della Comunità di Sant’Egidio con i disabili e con la creazione dei Laboratori sperimentali d’arte?
Tutto ha origine all’inizio degli anni Settanta dall’impegno di Sant’Egidio nella periferia di Roma e nel vecchio rione di Trastevere dove accadeva di incontrare persone con disabilità fisiche e menatali, non solo vittime del pregiudizio, ma spesso nascoste per paura e vergogna dalle proprie famiglie, allora segnate da un pesante giudizio sociale e da una totale assenza di sostegno e assistenza: l’unica risposta istituzionale era – ed è in parte ancor’oggi – la segregazione negli istituti e negli ospedali psichiatrici. Erano giovani e meno giovani, per lo più considerati presenze ingombranti e imbarazzanti, talvolta condannati da diagnosi infondate, esclusi dal mondo del lavoro e discriminati dalla scuola (l’abolizione delle classi differenziali si deve alla legge 517 del 1977 che fa dell’Italia l’unico paese europeo che prevede, almeno giuridicamente, la piena integrazione scolastica).
Tra i molti possibili, un paio di esempi .
La diagnosi senza appello.
Sul certificato di invalidità di Maurizio Valentini (1986), si attestava: “Insufficiente mentale di media gravità; difficoltà di ragionamento grave; crisi epitimiche e disfoniche complicano il quadro di base.” Segue poi la dicitura: “Si attesta altresì che l’invalido per la natura e il grado della sua invalidità è di pregiudizio alla salute ed incolumità propria e dei compagni di lavoro e alla sicurezza degli impianti ...”. Con tale dichiarazione com’è possibile trovare lavoro! Dopo una lunga battaglia, Maurizio ottiene il riconoscimento di invalido civile senza l’attestazione di pericolosità. Oggi lavora nella Trattoria degli Amici, dove è un ottimo sommelier, ma è anche uno straordinario fotografo, come documenta il video di César Meneghetti.
Ricordi del Manicomio
Anna Maria Colapietro (1954), ha subito lunghi periodi di internamento tra i tre e i venti anni, dei quali racconta: “Non mi ricordo perché, ma mi hanno portata al manicomio, al Santa Maria della Pietà. Non una volta sola. Mi ci portavano, poi uscivo e poi mi ci riportavano un’altra volta. Dicevano che ero matta… mi legavano e mi mettevano in una stanza buia, io strillavo e mi menavano.” Oggi Anna Maria, che a 50 anni ha imparato a leggere e scrivere, vive in un casa famiglia di Tor Bella Monaca a Roma e dipinge opere cromaticamente vibranti, utilizzando “un codice espressionista a flusso, le cui scelte linguistiche sono in relazione al suo interiore flusso di coscienza e di pensiero”.
Ma agli inizi cosa si poteva fare? Cosa potevano fare degli studenti liceali e universitari per affrontare situazioni spesso complesse e reagire a sistemi e meccanismi generatori di esclusione e sofferenza? Per intraprendere un percorso a più livelli e intervenire nelle politiche sociali e sanitarie, un’indicazione c’era ed era di limpida semplicità: veniva dal testo evangelico che – descrivendo con attualità impressionante un’umanità dolente e spaventata – chiede di non disprezzare il proprio fratello, invita ad avvicinarsi agli ultimi, ad ascoltare e parlare con loro, anche a gesti, e rompere l’isolamento. Da subito ci chiedemmo: perché tutti hanno paura? In realtà nell’avvicinare queste persone, assieme a storie di disagio e di sconfitte, si scoprivano un pensiero inespresso e una vita interiore a molti di quei disabili misconosciuta.
Era un approccio ingenuo, ma vero, che ristabiliva un clima di fiducia e di parità. D’altra parte, per dirlo in sintesi, la novità introdotta dai Vangeli – novità che per indifferenza e resistenze ideologiche stenta ancora ad affermarsi – sta nel vedere nel disabile, nel malato, e anche nel monstrum, l’uomo che soffre, la persona e non l’essere “inutile” e ripugnate. Perciò Gesù guarda il disabile, l’indemoniato, il malato, lo tocca senza alcun timore di contagio. Partecipa al dolore dell’altro. Per lui l’handicap non è frutto del destino o di una colpa, non riduce mai l’altro al deficit che manifesta perché distingue la persona dal sintomo e ristabilisce l’unità tra “corpo” e “anima”. Così facendo rompe lo stigma e il cerchio marginalizzante, ripristina la fiducia e scardina l’idea della pericolosità dell’infermo (i lebbrosi) come del disabile fisico e mentale. Non solo evidenzia pubblicamente l’eguaglianza ontologica di tutti gli esseri umani, ma compie un’azione liberatoria che infrange i sistemi generatori di minorità e avvia un percorso di emancipazione che prevede la riabilitazione della persona e il recupero delle sue facoltà. In definitiva si tratta di un’azione creativa che, infranta la barriera del pregiudizio e dell’ineluttabilità, ristabilisce la comunicazione e mette in moto energie nascoste, insospettabili, di cui sono dotati anche quelli considerati più “gravi”.
E’ l’esperienza di Miralem Pavani (1989), disabile mentale di origine Rom, con gravi problemi nella comunicazione verbale, che scrive digitando al computer con il metodo della comunicazione aumentativa:
Voglio parole
parole per rompere il silenzio
noi volo prendiamo con il prodigioso pensiero ma non è dato il potersi riprodurre in parole
è un’idea molto strana, molti pensano che noi siamo noiosi
Si ragiona poco quando si ha il cervello pieno di storie tristi.
Molti disabili hanno difficoltà neurologiche, con dizioni spesso infantili, a volte senza alcuna possibilità di espressione verbale. L’handicap imprigiona il pensiero, impedisce che gesti, parole e pensieri coincidano con la volontà. Da qui il giudizio di stupidità. Si nega che le persone con disabilità siano intelligenti e abbiano la capacità di elaborare un pensiero complesso. Ma paradossalmente i più deboli nella comunicazione possono trovare nuove forme per esprimere il loro pensiero creativo.
E’ anche il percorso compiuto da Daniela Parisini (1964). All’età di 10 anni, per difficoltà della famiglia, è ricoverata in istituto, dove vive per trenta anni:
“Io ho vissuto molti anni in istituto, molti anni. Da piccola sognavo sempre di andar via. Che senso aveva questo? Via. Io ero una bambina proprio, una bambina che sognava d’andar via, di essere libera, non lo so, io avevo questo sogno. Nell’istituto purtroppo, io, … era un bell’istituto ma sempre un istituto era. Io vivevo in quelle quattro mura e non avevo amici, non avevo niente, né valori, né niente. Quando ho conosciuto gli amici della Comunità loro mi hanno cominciato ad insegnare tante cose belle. La cosa che mi ha colpito era questa: vedere la Comunità con persone disabili, questo mi ha colpito moltissimo. Ho detto “oddio – mi ha preso come un colpo di fulmine – come mai la Comunità vuol bene alle persone come me? Quando sono diventata grande io l’ho detto a tutti: “ Io voglio andare via, quando avrò 40 anni voglio andarmene da qui perché non ce la faccio più”.
A 40 anni Daniela ha realizzato il suo sogno: è uscita dall’istituto e ora vive in un bell’appartamento del quartiere romano di Monte Verde, che Sant’Egidio ha predisposto per accogliere Daniela ed altre persone con disabilità provenienti dagli istituti o rimasti senza una famiglia. E’ questo il primo passo di un processo liberatorio a cui segue l’inserimento nei Laboratori sperimentali d’arte, che ha fatto di Daniela una pittrice dalla vena creativa originale, di intonazione onirica e surreale, con l’uso di un linguaggio astratto.
In realtà la pratica della rottura del pregiudizio è un processo lento, che ha nella formazione e nella valorizzazione individuale le premesse per un exploit creativo, in cui gli artisti disabili non solo ci svelano la loro identità e profondità, ma anche il modo di osservare criticamente il mondo. Ma sui metodi e i risultati di questa esperienza, rinvio agli interventi di Simonetta Lux e di Cristina Cannelli.
Per concludere: la matrice evangelica di cui ho parlato, ricorre come un filo rosso – non sempre identificata in quanto tale – nei pensatori laici (filosofi, psichiatri, pedagogisti, medici, poeti, scrittori e artisti) che hanno agito e teorizzato sul tema della diversità e alterità. Lo ha chiarito di recente la professoressa Lux, evidenziando in non pochi protagonisti di tale ricerca, la messa in opera di azioni singolari e complesse che hanno il loro culmine nella pratica dell’arte e della libera espressione.