Il linguaggio della guerra
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Il linguaggio della guerra

Editoriale
Parole d’odio che scavano solchi

Le parole possono essere pietre – ammoniva Carlo Levi – e le pietre possono colpire gli uomini e le donne per le loro parole. Ciò che è accaduto negli Stati Uniti con la tragica fine di Charlie Kirk è inaccettabile ed è un campanello d’allarme che riguarda le società contemporanee. Dalle parole d’odio alle pietre. Inoltre, si fa strada il rischio di strumentalizzazione nel dibattito tra forze politiche: “Gli odiatori siete voi!”, “No, siete voi!”. In realtà il linguaggio d’odio è stato utilizzato da parti differenti: oggi emerge chiaramente come l’indulgere in parole di disprezzo, razzismo e demonizzazione dell’altro, finisce in fatti di inciviltà, se non di sangue, che possono minare la qualità del dibattito pubblico e lo stesso equilibrio democratico.
La questione è vasta: la società va dividendosi in “curve” di tifosi, “tribù” d’appartenenza a causa della polarizzazione, dello spaesamento e del clima bellicista diffuso in tutto l’Occidente. Si è sempre più preda di pulsioni semplificatorie e generalizzanti, che alimentano circuiti di intolleranza, esclusione, pregiudizio. La fine dei pensieri lunghi, profondi, meditati, delle parole pensate, ha significato il prevalere di schemi polarizzati, veloci, irriducibili.
La contrapposizione non teme di gettare benzina sul fuoco delle contraddizioni e dei risentimenti, incendiando le parole e le idee. Si dovrebbero “costruire ponti” e “non alimentare ulteriormente le polarizzazioni”, ricorda in una recente intervista papa Leone. La guerra delle parole inizia sempre all’interno di una società, per poi trasferirsi verso il nemico esterno. Le prime vittime sono in genere i poveri che vengono additati con epiteti terribili, ed esclusi. Poi si passa agli immigrati e alla fine al nemico.
C’è un filo rosso tra il pregiudizio, l’esclusione, l’odio e infine la guerra. Oggi poi, a differenza del passato, l’uomo digitale è più solo e spaesato dei suoi predecessori: la sua identità è incerta, ha bisogno di essere puntellata. L’hate speech dei social fornisce certezze semplici e rassicuranti, creando nemici veri o presunti. Il meccanismo dei “followers”, dei “like”, dei “gruppi”, non fa altro che rinforzare giudizi e pregiudizi. Il mondo si riduce a una lotta tra tribù virtuali, ma molto reali nelle emozioni negative. Il confronto delle opinioni, così decisivo nel gioco democratico e per la crescita della società civile e la maturazione delle personalità, si inaridisce alla radice. Le piattaforme «premiano l’indignazione e l’aggressività, nascondono il contesto e favoriscono il conflitto invece che la sua soluzione», ha scritto su The Atlantic Charlie Warzel. I social mettono una bandiera artefatta in mano a monadi potenziali, scarsamente relazionate con altri, raramente legate a reti associative, facilmente influenzabili dall’ondeggiare dal flusso incontrollato delle notizie.
Oggi c’è qualcosa in più rispetto a ieri. Non va infatti sottovalutato il clima creato da conflitti sempre più duri e lunghi della “guerra mondiale a pezzi”. La guerra è stata sdoganata a livello politico e mediatico, dai nostri leader e opinionisti, e la sua mentalità sta rompendo ogni argine. Se è lecito combattere il nemico, se è giusto fornire armi e comminare sanzioni, tutti si sentono legittimati a usare le armi per eliminare chi minaccia le proprie ragioni, la propria identità o propri confini. Ecco la bandiera per la quale si può morire o uccidere.
Forse è davvero venuta l’ora di “difendere i confini” in un senso diverso rispetto a quello a cui siamo abituati, quindi non quelli etnici o politici: piuttosto lo spazio della cultura umanista antica di duemila anni perché non venga esiliata dai luoghi comuni e dalle pulsioni emotive. Occorre identificare come dannosa e isolare la zizzania della contrapposizione e del disprezzo che è stata lasciata crescere. Messaggi di odio, di disprezzo, di irrimediabile alterità tirano fuori il peggio da ogni società facendola cadere nella trappola della polarizzazione identitaria. Le parole sono potenti e anticipano le armi. Quanto accade deve diventare di monito per tutti: l’invito ad un esercizio di maggiore responsabilità. Il benessere, la dignità, il riscatto di ognuno di noi sono strettamente legati a quelli di coloro che ci vivono accanto, chiunque essi siano. 


[ Marco Impagliazzo ]