Siamo ancora sonnambuli. L'editoriale di Marco Impagliazzo su Avvenire

Siamo ancora sonnambuli. L'editoriale di Marco Impagliazzo su Avvenire

Grande guerra e lezioni dimenticate

C’è – tra gli storici – chi vede analogie tra il tempo che viviamo e quello che precedette la Prima guerra mondiale: una potenza in ascesa, una in declino, riarmo, tensioni, volontà di dominio. Tutto ciò portò, esattamente 111 anni fa, il 28 luglio 1914, a uno scontro locale destinato ben presto – già il 1° agosto – a trasformarsi in una conflagrazione continentale, e poi globale.
Al di là dei confronti, sempre opinabili, benché suggestivi, è certo che il sonnambulismo che accompagnò l’inizio di quella guerra, l’accumulo di materiale bellico negli anni precedenti, la certezza di un conflitto breve e controllabile, la testarda caparbietà con la quale vennero condotte offensive per pochi metri di terra al prezzo di migliaia di morti, hanno qualcosa da dire al nostro tempo. Sembra, infatti, che alcuni leader mondiali giochino con il fuoco, incuranti delle tragiche conseguenze che potrebbe avere il saldarsi dei tanti conflitti della “guerra mondiale a pezzi” in un quadro più unitario.
Pare superato il multilateralismo imperfetto della Guerra Fredda, considerato inutile da Capi di Stato e di governo abituati a fare i conti unicamente con opinioni pubbliche plasmate dalle emozioni e dall’umoralità dei social. Non tutti, in quegli anni, però caddero preda dell’ubriacatura da sangue. Anzi, l’immane macello della guerra di trincea diede l’avvio all’evoluzione del magistero cattolico davanti a ogni conflitto, un “ministero di pace” (così lo ha definito Andrea Riccardi), che è la grande eredità che i papi del XX e XXI secolo si sono consegnati l’un l’altro, fino a giungere all’appello di Leone XIV per una «pace disarmata e disarmante».
Tornando al secolo scorso, nel terzo anniversario della dichiarazione di guerra della Germania a Francia e Russia, il 1° agosto 1917, Benedetto XV scriveva la famosa lettera «ai capi dei popoli belligeranti», in cui definiva il conflitto in corso una «inutile strage», invitando tutti a deporre le armi, a disarmare, a trattare sulla base del diritto. Scriveva: «Il mondo civile dovrà dunque ridursi a un campo di morte? E l’Europa, così gloriosa e fiorente, correrà, quasi travolta da una follia universale, all’abisso, incontro a un vero e proprio suicidio?». A leggere tali parole oggi – mentre ormai il Vecchio Continente non è che una delle tante facce del “poliedro” globale, e nemmeno una delle più vivaci o ascoltate – non si può che guardare con rispetto alla capacità di lettura della storia che il Papa manifestava. Quanto potente è l’impulso suicida degli Stati e delle civiltà se ancora in questo primo quarto del XXI secolo abbiamo visto e vediamo realtà nazionali o plurinazionali correre incontro al «fallimento della guerra», come ha detto più volte papa Francesco. Nell’“età della forza” in cui viviamo, in troppi si affidano alla spada pensando di esserne immuni.
Purtroppo la spada oggi conta più della carta dei Trattati internazionali. In un mondo cieco la saggezza della Chiesa vede la realtà per quella che è e la chiama per nome: «Siamo animati dalla speranza di giungere quanto prima alla cessazione di questa lotta tremenda, la quale – affermava Benedetto XV – ogni giorno di più, apparisce inutile strage». Strage di civili a Gaza, strage di militari e bombardamenti incessanti in Ucraina, stragi in Sudan, nella Repubblica Democratica del Congo, in molti altri angoli del Pianeta. E tutto in nome di obiettivi il cui pieno raggiungimento si allontana sempre più. C’è tanto di tragicamente inutile nelle guerre di un mondo che avrebbe invece bisogno di unirsi per far fronte comune alle sfide globali, come il riscaldamento climatico, le ondate migratorie, gli squilibri demografici, l’epidemia di solitudine – di cui sono vittime principali gli anziani ma che attraversa tutte le generazioni –, le nuove frontiere della scienza, l’impoverimento culturale, lo smarrimento dei più giovani.
L’appello accorato di Benedetto XV rimase inascoltato. Di lì a poco più di un anno, molti dei Paesi sconfitti nella guerra se ne sarebbero pentiti. Ma anche gli stessi vincitori del conflitto si sarebbero trovati alle prese con enormi problemi interni da affrontare, un’economia distrutta, la prospettiva evidente di una guerra futura – che arrivò in un ventennio – ancor più terribile.
Oggi, tanto negli ambienti governativi e diplomatici quanto in quelli che formano e indirizzano il dibattito pubblico si dice che non è il momento di trattare, si sostiene che “con quel nemico lì”, qualunque esso sia, non si può scendere a compromessi. La storia, la ragione, la speranza ci ricordano che tali prese di posizione sono miopi, illusorie, senza fondamento. Occorre ripeterlo con forza per non arrendersi al male: è ancora tempo per immaginare un ordine internazionale diverso in cui la pace sia al primo posto. Ed è più che mai un compito urgente e ineludibile per chiunque vive la responsabilità della guida dei popoli.


[ Marco Impagliazzo ]