La ricerca della pace, che sale lungo il Novecento e trova vero riconoscimento dopo la Seconda guerra mondiale, non è in fondo una forma di debolezza? È questa un'accusa oggi ripetuta: l'Occidente è spesso biasimato di codardia. Lo fece un personaggio notevole, non un mistico della morte, ma un grande resistente al totalitarismo sovietico che scoprì la libertà spirituale nel gulag: Solženicyn. Esule negli Stati Uniti, fu invitato a Harvard nel 1978, di fronte a 20.000 persone scelse di parlare del declino del coraggio in Occidente, perdita di forza e virilità nelle classi dirigenti e intellettuali: «Segno precorritore della fine».
Del resto, gli Stati Uniti non erano riusciti a vincere Hitler da soli, ma avevano avuto bisogno di Stalin «un nemico ben peggiore e più potente», secondo lui. «Che ve ne fate della libertà?», chiedeva a un pubblico che si aspettava invece lodi per l'America che l’aveva accolto. Gli Stati Uniti avevano abbandonato il Vietnam al Nord comunista nel 1973 con gli accordi di Parigi. L’Occidente, secondo Solženicyn, è travolto dal declino del coraggio. Parole forti.
Sì, declino del coraggio, ma quale coraggio in una situazione mondiale oggi sull’orlo dell’abisso? Per molti, con la fine della Guerra fredda, si aprivano prospettive di un mondo in pace, in cui la democrazia si sarebbe diffusa, anche grazie alla liberalizzazione dei mercati. Sappiamo che la storia non è andata in questo senso, non solo per i conflitti che l’hanno travagliata, ma per la mancanza della costruzione di un’architettura internazionale che, inizialmente, sembrava affidata solo all’ultimo impero rimasto, gli Stati Uniti. Sono riapparsi nazionalismi, volontà di potenza, aspirazioni imperiali, legittimazioni di politiche aggressive. Tutto è diventato mercato. La globalizzazione non ha costruito la pace e un senso di comune destino tra popoli. Iniziative contrastanti e prevalenza del finanziario sul politico hanno fatto il resto.
Nel XXI secolo è stata riabilitata la guerra come strumento di affermazione dei propri interessi e soluzione dei conflitti: la pace è sempre meno un fine, anzi non lo è più. Oggi si discute di guerra e armamenti, di riarmo, e poco di pace. Del resto, è la realtà con cui misurarsi, a partire dall’aggressione russa all’Ucraina, dall’attacco terroristico di Hamas a indifesi cittadini israeliani e al rapimento e alla detenzione di alcuni (morti o restituiti o in attesa di esserlo, speriamo), ai bombardamenti e agli attacchi d’Israele a Gaza, che hanno creato una incredibile crisi umanitaria e sembrano voler eliminare un popolo, colpendo sistematicamente la popolazione civile.
Siamo meno informati su molte delle 59 guerre aperte, tra cui in Sudan, all’origine di morti e carestie, quasi 13 milioni di sfollati su 45 milioni di abitanti e quattro milioni di profughi all’estero. Le parti dichiarano di non aver intenzione di trattare la pace, ma vogliono continuare la guerra. Così fanno vari movimenti guerriglieri in Mali. In Myammar, l’ex Birmania, dopo quattro anni di guerra e 50.0000 morti, restano in campo 200 milizie a fronte della giunta governativa, che controlla meno della metà del Paese.
Le guerre durano, perché oggi la loro caratteristica è eternizzarsi. La guerra è una condizione di vita permanente, non transitoria per migliaia e migliaia di combattenti e di persone. Le organizzazioni di mediazione e pace, ormai poche, testimoniano come le parti in lotta non parlino più di pace, ma si pensano combattenti nel tempo: vivere è fare la guerra. Condivido la folgorante definizione di papa Francesco: «Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male». Qui parla il testimone della storia, che invita a guardare alla guerra come fallimento dell’umanità. E propone un metodo per non ignorare le guerre: avvicinarsi a loro. «Non fermiamoci su discussioni teoriche... Domandiamo alle vittime. Prestiamo attenzione ai profughi, a quanti hanno subito le radiazioni atomiche o gli attacchi chimici, alle donne che hanno perso i figli, ai bambini mutilati o privati della loro infanzia... guardiamo la realtà coi loro occhi e ascoltiamo i loro racconti col cuore aperto. Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace».
E la pace di cui godiamo ancora ci consente la solidarietà con chi è aggredito. Anzi: ci obbliga a pensare nuovamente la pace, perché la guerra non distrugga questo friabile mondo globale e non divenga ancora più grande. Pensare la pace vuol dire far crescere una cultura di pace, perché l’opinione pubblica sia libera e attenta, non prigioniera di semplificazioni. Perché la guerra non ci domini con la sua logica spietata che non si riesce ad interrompere. Ragionare, riflettere con diverse opinioni su tutto questo, non è perdita di tempo, ma preparazione di tempi migliori. Mai cedere alle semplificazioni rapide amico/nemico, che ci sgravano dal pensare. Il coraggio della pace è il coraggio di essere.
Nel suo ultimo colloquio, prima di morire, Erich Fromm rispose alla domanda sui compiti decisivi per l’uomo d’oggi: «Credo che la cosa più importante sia il coraggio di dire che per l’uomo non c’è nulla di più importante dell’uomo stesso, e che lo scopo più grande della sua azione è la stessa sua sopravvivenza, non solo biologica, ma spirituale... Se l’uomo non ha più speranza. Allora non ha più possibilità di essere». Il coraggio di essere è non nascondersi nel conformismo o nel senso di irrilevanza che genera impotenza di fronte alla storia di un mondo grande e terribile e complicato. Il coraggio di essere porta a scegliere e a non rinunciare.
La Pira, appassionato uomo di pace, si sentiva innanzi a una scelta apocalittica tra pace e guerra, più drammatica di quel che si pensava. Era il 1965, sessant’anni fa. Non c’è stata l’apocalisse. Ma ci sono stati uomini e donne che hanno scelto. I sistemi di guerra e la cultura del conflitto umilia la persona e il suo potere di essere e agire. Ma la scelta di uno ha un peso: «Bisogna avere il coraggio di scegliere la pace e agire a tutti i livelli (internazionali ed interni: militari, scientifici, tecnici, economici, sociali, culturali, politici, religiosi) in conformità con questa scelta». Già non era più sindaco, ma sarebbe partito per il Vietnam. Un uomo, una donna non sono destinati all’irrilevanza, se hanno il coraggio di essere. La parola conflitto non sarà il titolo del tempo che stiamo vivendo, se non ci faremo cambiare dall’odio e dall’ignoranza.
Il testo è parte della Lectio che questa sera chiuderà il Festival di Prato “Seminare idee”
[ Andrea Riccardi ]