È una resa vergognosa, il fallimento della politica e dell’umanità. Il sogno che le armi tacciano
La speranza non delude. È la certezza che Francesco ha voluto comunicare in vista della conclusione del primo quarto di secolo del Terzo millennio. Il Giubileo del 2025 si colloca in un tempo di inquietudine e preoccupazione, per le troppe situazioni di conflitto aperte nel mondo e per l’insufficiente impegno nel contrastare i processi di riscaldamento globale. La tentazione della disperazione, e di conseguenza della rassegnazione, è forte. Grande è il bisogno di ritrovare le ragioni della speranza, che muovano tutti a passi concreti nella direzione della pace e della sostenibilità. Quello del 2025 è il 27° Giubileo ordinario della Chiesa cattolica. Una tradizione che viene da lontano, che ha attraversato epoche diverse e si è confrontata con le tempeste della storia, ma anche con i dubbi e le trasformazioni della Chiesa stessa. È una manifestazione della pietà popolare che ha coinvolto e appassionato nei secoli grandi masse di fedeli. È al popolo cristiano, infatti, che si deve l’intuizione di un appuntamento che fin dall’inizio, nel 1300, s’è distinto per il suo carattere popolare.
Papa Francesco ha scelto di porre questo Anno Santo sotto il segno della speranza, come annunciato dalla Spes non confundit, la Bolla d’indizione emanata a maggio 2024. E se il nostro tempo è avaro di messaggi di fiducia, non è compito della Chiesa restituire cittadinanza alla speranza, per tutte le età e a tutte le latitudini? Ecco, allora, che Spes non confundit si diffonde nell’elencare i segni di speranza che il Giubileo vorrebbe incarnare e alimentare, a beneficio dei tanti che hanno rinunciato a coltivare attese, aspettative e sogni. Il primo di questi è la pace per il mondo, con il sogno che «le armi tacciano e smettano di portare distruzione e morte. Il Giubileo ricordi che quanti si fanno "operatori di pace saranno chiamati figli di Dio"».
La pace si prepara solo con la pace. La guerra s’è dimostrata una soluzione inefficace in tante aree del mondo. Di questi tempi, la guerra è ridivenuta “popolare” e la ricerca della pace ha perso reputazione. È uno dei segni dei nostri tempi. La diffusa cultura dello scontro, della contrapposizione, della “guerra che risolve”, sembra più ragionevole rispetto alla ricerca della pace. Nella comunità internazionale, davanti alle crisi, prevalgono due atteggiamenti: l’immobilismo o le armi; rassegnazione o risposta violenta. Entrambi segnati dalla medesima deresponsabilizzazione. È una mentalità che si allarga dalla cultura ai media, fino alla politica. Le crisi vengono rimandate, congelate, complicate. Numerosi conflitti restano irrisolti e dimenticati. Per reagire non è sufficiente mantenere una posizione di “testimonianza” del valore della pace – etica o religiosa – ma occorre agire in modo concreto per cercare soluzioni reali. E dimostrare la falsità dell’assunto “guerra ineluttabile”. Più che di pacifisti, il nostro mondo ha oggi bisogno di pacificatori. Fare pace è una scelta che ha bisogno di creare una sua cultura, prima condizione necessaria al convivere globale. La pace difende la vita di tutti, a iniziare da quella dei poveri e dei deboli. La guerra rende tutti più poveri: è quello che vediamo in Siria, a Gaza, in Ucraina, in Sudan e altrove. Al contrario, la pace è il sentimento intimo dei popoli: anche nei momenti peggiori di conflitto, la gente misteriosamente attende qualcosa, attende la pace.
In Europa siamo stati immersi nella pace, fino a ieri quasi naturale. La mia generazione ha goduto sempre di pace. Ma i ricordi familiari dei nonni mi hanno tanto parlato della guerra e dei morti della nostra famiglia. Io ho conosciuto la guerra non vicino a me, ma in Africa, in Mozambico. Toccare la guerra non è come guardarla in televisione, quando sembra un videogioco. È la guerra pulita, che diventa quasi un gioco tecnologico. Sono le guerre degli altri.
Ma che abbiamo fatto della pace dopo la fine della guerra fredda? Viene da chiedersi dov’è finito il movimento per la pace che, contro la guerra del Golfo nel 1990-91, protestò in massa: forse esprimeva con le sue grandi manifestazioni la sensibilità di gente cresciuta durante la guerra fredda. A quelle posizioni può essere ascritto anche Giovanni Paolo II. Non abbiamo udito parole di pace sulla Siria per lunghi anni, malgrado incredibili orrori.
C’è un seme di pace nel cuore della storia.
Ci siamo abituati a considerare la guerra come qualcosa di lontano, che toccava altri e non noi, sottovalutandone l’orrore. Abbiamo così dimenticato il male della guerra. Anche perché è quasi scomparsa la generazione della Seconda guerra mondiale. Sono scomparsi i testimoni della Shoah, che ricordano che quella tragedia avvenne durante una guerra totale. Come la strage degli armeni e dei cristiani nell’Impero Ottomano durante la Prima guerra mondiale...È scomparso il senso della malvagità della guerra, mentre ci si accorge del valore della pace solo quando ci manca. Oggi si parla con leggerezza di guerra, mentre il pensiero si militarizza. Si viene tacciati d’ingenuità o complicità se si parla di pace.
C’è un’eccezione costante: la Chiesa, specie il Papa. La Chiesa – disse Paolo VI – è «esperta di umanità»: sa cos’è la guerra. È una realtà storica che conserva la memoria. Inoltre, è una realtà internazionale, che vive in differenti Paesi e sa come la guerra laceri i popoli. Francesco, nella Fratelli tutti, ha dato voce a tale coscienza: «Ogni guerra lascia il mondo peggiore di come lo ha trovato. La guerra è un fallimento della politica e dell’umanità, una resa vergognosa, una sconfitta di fronte alle forze del male. Non fermiamoci su discussioni teoriche, prendiamo contatto con le ferite, tocchiamo la carne di chi subisce i danni».
E ancora: «Così potremo riconoscere l’abisso del male nel cuore della guerra e non ci turberà il fatto che ci trattino come ingenui perché abbiamo scelto la pace». La coscienza della pace e del valore del dialogo è frutto, per la Chiesa, della profezia del Vangelo, ma anche di un grande realismo storico, maturato nella sua esperienza.
Francesco ha osservato: «L’uomo, alla fine, non è individuo; è prossimo all’altro uomo; è chiamato a essere fratello. Per questo, cerca nel suo fondo più la comunione che la divisione, più lo spazio familiare per un dialogo che la tribuna per un comizio». Per questo non si può essere pessimisti, rassegnati: c’è un seme di pace nel cuore della storia, dei giusti, degli esseri umani, germogliato in tante civiltà e momenti. Non ci si può ritirare nell’anonimato, guardando indifferenti o spaventati il flusso della storia.
Ci sono tre passi per un cammino di pace: Conoscere le vicende di chi soffre per la guerra, essere solidali fattivamente con le vittime, pregare per la pace. Solidarietà, preghiera, partecipazione: sono l’attacco dei disarmati alla guerra. Diceva Giorgio La Pira, che aveva tra le mani la Bibbia e guardava alla storia dei popoli: «Credo nella forza storica della preghiera». Dovremmo pregare di più per la pace nelle chiese, anche ricordando i Paesi in guerra. La pace è opera di ognuno; è orientamento profondo dell’umanità; soprattutto è dono di Dio, in risposta alla nostra preghiera e al lamento dei sofferenti. Ma è ora di accorgersi, di fronte alle troppe guerre, che è il tempo della pace. Perché la speranza non delude.
[ Marco Impagliazzo ]