La storia
Tetro. Anche solo ad avvicinarsi al carcere El Helicoide di Caracas si sente un brivido lungo la schiena. È lugubre, intricato, costruito per far perdere la speranza, la fiducia, la fede. E quando, dopo cinque anni di detenzione, l'altro giorno Alfredo Schiavo l'ha lasciato alle sue spalle, ha pensato a sua madre. «Finalmente potrò riabbracciarla». Prima della libertà ritrovata, del futuro tutto da costruire, quell'imprenditore italo-venezuelano di sessantasette anni ha parlato della sua mamma. «È anziana e malata. Le ho tenuto nascosto l'arresto. In tutto questo tempo ho accampato scuse per tutelarla: un volo cancellato, un impegno di lavoro. Ora, finalmente, potrò raggiungerla in Italia». Incarcerato nel 2020 con l'accusa di aver collaborato al tentato colpo di stato del 2019 organizzato da ex soldati americani e disertori venezuelani, è stato condannato a trent'anni.
E segregato con altri detenuti "politici". «È stato un percorso molto lungo, sofferto. E doloroso, soprattutto per la mia famiglia», dice Schiavo. «Mi sentivo destinato a una condizione di non vita. Non pensavo sarei mai uscito da lì. Mia moglie e mia sorella mi hanno dato la forza necessaria per arrivare qui oggi». All'aeroporto di Fiumicino, a Roma, è in sedia a rotelle. Con le cannule per l'ossigenazione. Le sue condizioni di salute sono complesse: una serie di problemi, tra cui, il più grave, un enfisema polmonare. Che in carcere si è acuito. Ma, sottolinea Schiavo a chi gli è vicino, «le cure non mi sono mai state negate». La sua liberazione, l'indulto concesso dal presidente del Venezuela Nicolas Maduro «per ragioni umanitarie», è stato un delicato percorso di diplomazia. «Un eccellente gioco di squadra», dichiara il viceministro degli Esteri Edmondo Cirielli. Che ringrazia il presidente Maduro «per il personale intervento» e la Comunità di Sant' Egidio «per il prezioso lavoro di mediazione». E il pensiero ora va agli altri sette italiani rinchiusi nelle carceri di quel paese che molti sostengono sia il cuore dell'America meridionale. E ad Alberto Trentini, cooperante di 45 anni in carcere dallo scorso 15 novembre con accuse di cospirazione. L'ong For Penal, dal 2014, ha registrato in Venezuela più di 18mila detenzioni arbitrarie a sfondo politico: novecento i reclusi oggi considerati oppositori, di cui oltre sessanta stranieri. La liberazione di Schiavo è una feritoia di speranza. «Una notizia che illumina». A parlare è Gianni La Bella della Comunità di Sant'Egidio. Lui, insieme alle istituzioni, ha portato avanti la mediazione in prima persona. La sera dello scorso venerdì ha incontrato il presidente Maduro per oltre due ore. Da solo. «Credo che questo gesto sia da interpretare come un desiderio del governo venezuelano, anche nella concomitanza della morte di Papa Francesco, di apertura e di dialogo. La Santa Sede, agli occhi di Maduro, è una grande potenza». Avete parlato anche della situazione di Trentini? «Ha ricevuto la lettera della madre del cooperante. Speriamo di riuscire a portare a casa anche lui». Il Venezuela è un Paese complesso. E alla liberazione di Schiavo hanno contribuito una serie di contatti all'interno della chiesa e della classe politica venezuelana. «Ci siamo mossi in quell'ambito lì. Con l'aiuto anche del governatore della regione di Carabobo Rafael La Cava, ex ambasciatore in Italia. Il momento più difficile? Al termine di un viaggio durato «dall'alba al tramonto», con una tappa a Lisbona dove è stato necessario un controllo medico, Alfredo Schiavo vuole pensare al futuro. E con chi gli è vicino focalizzarsi «sui progetti, sulla vita che improvvisamente si riaccende come possibilità». Prima di lasciare Caracas, il pranzo in uno dei ristoranti di pesce più rinomati in città. «Ho mangiato poco o nulla - confida agli amici - Lo stomaco, la mente...era tutto sottosopra». Tre anni fa sembrava fatta. Avrebbe dovuto essere rilasciato, era arrivato addirittura in aeroporto. Poi sul computer dell'addetto ai controlli si è accesa ogni tipo di spia, ogni allarme. E Schiavo è stato riportato in carcere, rigettato in cella. E diventa complesso non abbandonarsi alla disperazione. Non sentirsi già morto. Sabato, all'aeroporto, i controlli si ripetono. Il fiato sospeso sino alla chiusura del portellone. «Non ho mai desiderato un decollo così intensamente».
[ Irene Fama ]