Il 27 gennaio 1945 l'esercito sovietico, nella sua avanzata verso il cuore della Germania, entrò in una struttura fatta di baracche con una linea ferroviaria che vi entrava passando sotto una torretta di guardia in muratura. Le avanguardie dell'Armata rossa all'inizio non capivano di cosa si trattasse. Pensavano si trattasse di una caserma abbandonata. Invece era Auschwitz: il più grande campo dell'universo concentrazionario nazista, formato dal complesso di Auschwitz I, dove era stata costruita una prima camera a gas rudimentale e Auschwitz II, o Birkenau, dove funzionavano gli impianti di sterminio, cioè i forni crematori.
Ciò che accadeva al loro interno è un'immane «geografia del dolore» a cui occorre ritornare in questo 80° anniversario dalla scoperta di Auschwitz. Perché i campi di sterminio non erano solo dei luoghi per la repressione e per l'eliminazione degli avversari politici e degli Untermenschen, i "subumani", come gli ebrei e i rom. Rappresentavano in realtà qualcosa di più, cioè il modello della società che il nazismo voleva costruire: luoghi in cui la cosiddetta razza ariana, rappresentata dalle SS, aveva un potere incontrastato sulle razze considerate inferiori, costrette a sottostare, fino allo stremo delle forze e alla morte, all'insensato e omicida progetto di dominio dell'umanità. Questa ideologia feroce non è stata partorita da menti malate e non è il frutto di una follia collettiva. E' il risultato di un clima che ha visto come primo passo il sorgere del fascismo italiano accompagnato da una critica radicale alla democrazia e alle sue strutture, a partire dal parlamento. Una «brutalizzazione della politica», come l'ha definita George Mosse, cioè l'utilizzo della violenza attraverso gruppi paramilitari che agivano sotto la copertura dei partiti, come gli squadristi italiani o le camicie brune naziste.
A questa miscela letale si unirono il razzismo e l'antisemitismo come narrazioni semplicistiche dei rivolgimenti storici di quegli anni: la guerra, la rivoluzione bolscevica del 1917, la grande crisi economica del 1929, visti come frutto della sovversione e della volontà di dominio degli ebrei, una paranoia complottista ancora oggi tanto presente sui social.
Queste sono le premesse. Ma bisogna dire che c'è un nesso chiaro tra genocidio e guerra. Pensiamo allo sterminio degli armeni e dei cristiani nell'impero ottomano durante la grande guerra, alla Shoah durante il secondo conflitto mondiale, come anche al genocidio dei tutsi in Ruanda o alle politiche di pulizia etnica in Jugoslavia negli anni Novanta del Novecento. La guerra rappresenta una rottura della vita sociale che apre le porte a ogni orrore. In guerra tutto è permesso. Non è un caso che i testimoni della Shoah, tra cui Liliana Segre e Edith Bruck, abbiano espresso la preoccupazione per il risorgere, in questi anni, di nuovi, minacciosi, conflitti in Europa e in Medio Oriente.
Dopo la guerra un altro elemento caratterizza i contesti in cui avvengono i genocidi: la crisi dei regimi democratici e l'instaurazione di regimi forti se non di vere e proprie dittature. Oggi - più che in passato - c'è il pericolo di far passare l'idea che ci sia un fascismo buono, quello prima del 1938, cioè prima delle leggi razziste, e un fascismo cattivo, quello antisemita. Ma il problema non è solo il '38, il problema è il 1922, vale a dire l'inizio del potere fascista con la marcia su Roma.
Quando la democrazia e il rispetto per le minoranze finiscono, tutto è possibile. Per questo l'antifascismo è un elemento fondamentale della nostra democrazia e chi occupa posizioni di responsabilità politica nel nostro Paese non può esimersi dal professarlo apertamente e fieramente. Liliana Segre ultimamente ha paventato che in futuro la Shoah venga relegata a «una riga nei libri di storia, e poi neanche più quella». Timori fondati. I testimoni sono sempre meno e quindi oggi tocca a noi ricordare e far capire che quella memoria riguarda tutti: l'odio e la violenza, quando si scatenano, vivono di vita propria, non si controllano, colpiscono chiunque perché esiste una comunanza di destino che chi alza muri o divide il genere umano in razze non riconosce.
E necessario un nuovo patto tra le generazioni perché le premesse di quel che è successo nella prima metà del Novecento non si ripresentino più. Come ha detto Papa Francesco: «Ricordare è un'espressione di umanità, ricordare è segno di civiltà, ricordare è condizione per un futuro migliore di pace e fraternità». Un futuro diverso, in cui ognuno non sia più Caino per il proprio fratello, in cui gli ebrei possano vivere singolarmente e come popolo nella sicurezza, in cui a tutti sia garantita la dignità - e pensiamo oggi al popolo palestinese - in cui sia chiaro il no all'antisemitismo, alla guerra, al fascismo e all'odio. E' un impegno che occorre prendere e trasmettere alle generazioni future.
[ Marco Impagliazzo ]