L'intervista
Mario Giro (Sant'Egidio): l'arroganza dell'Occidente va sostituita con l'ascolto e il dialogo. I giovani si sentono traditi
«Bisogna imparare a conoscere bene l'Africa e mi sembra che ora ci sia una più forte intenzione di ascoltare. In Africa è in atto una rottura sentimentale: c'è una frattura dei giovani con la propria terra che si è rivelata matrigna, ma anche con chi ha contribuito a rendere così il continente. L'Italia, in questa situazione, può giocare un ruolo preciso».
Mario Giro, membro della Comunità di Sant'Egidio, già sottosegretario e poi viceministro degli Esteri nei governi Letta, Renzi e Gentiloni, è tra i più esperti osservatori di questioni africane. Nel volume che ha appena curato per Guerini e Associati, "Piano Mattei. Come l'Italia torna in Africa"; analizza la situazione della regione alla luce del piano voluto dal governo Meloni per la costruzione di un nuovo partenariato tra Italia e Paesi africani, piano che richiama nel nome l'ex presidente Eni scomparso nel 1962 e che punta a un approccio paritario con il territorio africano. «Sono almeno 15 anni che l'Italia cerca di avere una politica con l'Africa senza riuscire a indovinare un suo modello. Con il piano Mattei c'è una nuova focalizzazione - sottolinea Giro -. Paradossalmente è accaduto l'opposto rispetto al passato, quando con i governi precedenti di centrosinistra si parlava di Africa per poi ridursi ad occuparsi di migrazioni. Ora è quasi avvenuto il contrario: si è iniziati dall'ossessione migratoria ma il quadro si è allargato e ci si è resi conto che il problema è più vasto. Questo permette di parlare ora davvero di sviluppo. Spero che ci sia continuità».
Il piano Mattei ha una dotazione iniziale di 5,5 miliardi di euro in quattro anni (largamente insufficiente per i critici) e cinque pilastri: istruzione, salute, agricoltura, acqua e energia, con «progetti pilota» in Marocco, Tunisia, Costa d'Avorio, Algeria, Mozambico, Egitto e Repubblica del Congo, Etiopia e Kenya. L'ambizione, sullo sfondo, è di trasformare l'Italia in un «hub» per l'approvvigionamento energetico fra Africa e Ue. «In questi mesi sono state inviate missioni in tutte le aree africane, manca solo quella del Sahel - spiega Giro - Gli stessi missionari raccomandano di ascoltare di più l'Africa e bisogna ascoltare sia i governi che le società civili. Spesso c'è un'arroganza tutta occidentale nel decidere su quali interlocutori puntare».
Ma le risorse del piano Mattei non sono troppo poche?.
«Quando due anni fa fu creato il Global gateway si disse la stessa cosa», risponde Giro riferendosi al maxi-progetto di investimenti dell'Ue da oltre 300 miliardi (150 circa per l'Africa). «È giusto criticare ma gli africani sanno bene che non abbiamo molte risorse. Quello che a loro interessa è la partnership, è l'essere presi sul serio e in maniera paritaria, gli interessa il know how, la collaborazione con le pmi italiane, con cui gli africani preferiscono parlare rispetto alle stesse multinazionali. Certo, nel piano è coinvolta l'Eni, che però è già la principale oil company in Africa e non ha bisogno del piano Mattei».
Nei giorni scorsi il governo ha inviato alle Camere la prima relazione annuale sullo stato di attuazione del piano, che vede impegnati oltre 600 milioni di euro per i primi progetti e il coinvolgimento di nuovi partner africani nel 2025. Tra i progetti, la fase 2 di sviluppo del "Corridoio di Lobito", la nuova connessione ferroviaria tra l'Angola e la regione mineraria del rame in Zambia, da realizzare insieme, fra gli altri, a Usa e Ue. Dal Fondo italiano per il clima, principale serbatoio a sostegno del piano, 71 milioni sono destinati a un progetto in Kenya per biocarburanti avanzati (su questo progetto sono arrivate critiche da alcune Ong), un piano di sostegno all'istruzione primaria in Costa d'Avorio, una scuola di Ospitalità a Hurghada, in Egitto, un progetto per la green economy in Etiopia e un polo agroalimentare in Mozambico.
Secondo Giro «in Africa è in atto uno scollamento tra generazioni. I giovani, che si sentono traditi due volte, non solo da chi non li vuole accogliere, ma anche dai loro leader, decidono da soli di partire, anche contro l'opinione dei propri genitori. In passato, invece, erano gli anziani a decidere chi poteva farlo». La vera sfida è capire «se davvero si riuscirà a spostare parte delle produzioni in Africa». «Magari ci riuscissimo - fa notare ancora Giro -. Gli europei non hanno intenzione di privarsi di qualche produzione agricola ma noi italiani dobbiamo farlo perché solo l'industrializzazione dell'Africa riuscirà a incidere sullo sviluppo e quindi, parallelamente, anche a far diminuire le migrazioni». Sulla formazione, aggiunge Giro, « si sta lavorando bene: c'è tanto da fare anche sulla sanità: è chiaro che i ragazzi continueranno a partire se non hanno educazione e salute. C'è un futuro comune conveniente per tutti, Europa, Italia e Africa: se gli europei lo capiscono ci sarà la svolta».
Mario Giro, membro della Comunità di Sant'Egidio, già sottosegretario e poi viceministro degli Esteri nei governi Letta, Renzi e Gentiloni, è tra i più esperti osservatori di questioni africane. Nel volume che ha appena curato per Guerini e Associati, "Piano Mattei. Come l'Italia torna in Africa"; analizza la situazione della regione alla luce del piano voluto dal governo Meloni per la costruzione di un nuovo partenariato tra Italia e Paesi africani, piano che richiama nel nome l'ex presidente Eni scomparso nel 1962 e che punta a un approccio paritario con il territorio africano. «Sono almeno 15 anni che l'Italia cerca di avere una politica con l'Africa senza riuscire a indovinare un suo modello. Con il piano Mattei c'è una nuova focalizzazione - sottolinea Giro -. Paradossalmente è accaduto l'opposto rispetto al passato, quando con i governi precedenti di centrosinistra si parlava di Africa per poi ridursi ad occuparsi di migrazioni. Ora è quasi avvenuto il contrario: si è iniziati dall'ossessione migratoria ma il quadro si è allargato e ci si è resi conto che il problema è più vasto. Questo permette di parlare ora davvero di sviluppo. Spero che ci sia continuità».
Il piano Mattei ha una dotazione iniziale di 5,5 miliardi di euro in quattro anni (largamente insufficiente per i critici) e cinque pilastri: istruzione, salute, agricoltura, acqua e energia, con «progetti pilota» in Marocco, Tunisia, Costa d'Avorio, Algeria, Mozambico, Egitto e Repubblica del Congo, Etiopia e Kenya. L'ambizione, sullo sfondo, è di trasformare l'Italia in un «hub» per l'approvvigionamento energetico fra Africa e Ue. «In questi mesi sono state inviate missioni in tutte le aree africane, manca solo quella del Sahel - spiega Giro - Gli stessi missionari raccomandano di ascoltare di più l'Africa e bisogna ascoltare sia i governi che le società civili. Spesso c'è un'arroganza tutta occidentale nel decidere su quali interlocutori puntare».
Ma le risorse del piano Mattei non sono troppo poche?.
«Quando due anni fa fu creato il Global gateway si disse la stessa cosa», risponde Giro riferendosi al maxi-progetto di investimenti dell'Ue da oltre 300 miliardi (150 circa per l'Africa). «È giusto criticare ma gli africani sanno bene che non abbiamo molte risorse. Quello che a loro interessa è la partnership, è l'essere presi sul serio e in maniera paritaria, gli interessa il know how, la collaborazione con le pmi italiane, con cui gli africani preferiscono parlare rispetto alle stesse multinazionali. Certo, nel piano è coinvolta l'Eni, che però è già la principale oil company in Africa e non ha bisogno del piano Mattei».
Nei giorni scorsi il governo ha inviato alle Camere la prima relazione annuale sullo stato di attuazione del piano, che vede impegnati oltre 600 milioni di euro per i primi progetti e il coinvolgimento di nuovi partner africani nel 2025. Tra i progetti, la fase 2 di sviluppo del "Corridoio di Lobito", la nuova connessione ferroviaria tra l'Angola e la regione mineraria del rame in Zambia, da realizzare insieme, fra gli altri, a Usa e Ue. Dal Fondo italiano per il clima, principale serbatoio a sostegno del piano, 71 milioni sono destinati a un progetto in Kenya per biocarburanti avanzati (su questo progetto sono arrivate critiche da alcune Ong), un piano di sostegno all'istruzione primaria in Costa d'Avorio, una scuola di Ospitalità a Hurghada, in Egitto, un progetto per la green economy in Etiopia e un polo agroalimentare in Mozambico.
Secondo Giro «in Africa è in atto uno scollamento tra generazioni. I giovani, che si sentono traditi due volte, non solo da chi non li vuole accogliere, ma anche dai loro leader, decidono da soli di partire, anche contro l'opinione dei propri genitori. In passato, invece, erano gli anziani a decidere chi poteva farlo». La vera sfida è capire «se davvero si riuscirà a spostare parte delle produzioni in Africa». «Magari ci riuscissimo - fa notare ancora Giro -. Gli europei non hanno intenzione di privarsi di qualche produzione agricola ma noi italiani dobbiamo farlo perché solo l'industrializzazione dell'Africa riuscirà a incidere sullo sviluppo e quindi, parallelamente, anche a far diminuire le migrazioni». Sulla formazione, aggiunge Giro, « si sta lavorando bene: c'è tanto da fare anche sulla sanità: è chiaro che i ragazzi continueranno a partire se non hanno educazione e salute. C'è un futuro comune conveniente per tutti, Europa, Italia e Africa: se gli europei lo capiscono ci sarà la svolta».
[ Paolo Alfieri ]