L'appello degli autori a non rassegnarsi: c'è una crisi di futuro, ma il male va riconosciuto e affrontato
ANDREA RICCARDI - Tu hai un punto di partenza chiaro, perché hai compiuto un esodo, hai attraversato l'inferno del male e poi hai affrontato il futuro. Hai vissuto in anni in cui c'erano speranze collettive di futuro. Prima hai ricordato l'immagine di Israele evocata dal sionismo, la terra promessa dove scorre latte e miele, come ti raccontava tua madre: ebbene, anche quella era un'idea di un futuro migliore. E anche l'Italia, nel secondo dopoguerra, nel suo momento di maggior sviluppo, è stata accompagnata da una promessa di futuro. Ma oggi quella promessa si è persa. Abbiamo paura del futuro. Oggi viviamo in una dimensione di presentismo con la paura che il futuro sia peggiore del presente o che possa erodere il nostro benessere, cancellare a poco a poco quanto abbiamo realizzato. È un problema europeo, non solo italiano, quello di un continente che ha smarrito le sue utopie. Del resto, pochi hanno considerato che Paesi come il Regno Unito e la Francia, da che erano centri di imperi globali, nel volgere di qualche anno, grazie al giusto processo di decolonizzazione, si sono ritrovati su un'altra dimensione. Anche la crisi demografica, particolarmente acuta nel nostro Paese, esprime una crisi di futuro. I pochi giovani, i pochi figli, sono una minoranza stretta in un angolo. Il mondo degli adulti è sovrastante e non vogliamo dirci anziani, quando lo diventiamo. Occupiamo troppo spazio. Vengo da una generazione in cui a un certo punto i giovani, nel 1968 (allora io avevo 18 anni), hanno sognato di prendere il potere e di cambiare la società. Certo, il movimento del Sessantotto è stato contraddittorio con esiti anche drammatici, e c'è chi sostiene addirittura che la fortuna di Berlusconi (lo scriveva Mario Perniola), in un qualche modo, sia legata alla società dello spettacolo che si afferma a partire da quel momento. Possiamo fare tutte le critiche che vogliamo, però resta il fatto che si trattava di un movimento di giovani che per un certo momento ha interpellato la società degli adulti in una contrapposizione generazionale. Oggi in Italia i giovani sono numericamente una minoranza, e quando si esprimono non ricevono attenzione. Ma non si può parlare di futuro senza ridare spazio ai giovani nel nostro Paese. Così come non possiamo parlare della crisi demografica senza affrontare seriamente la questione degli immigrati. Il punto fondamentale è un'accoglienza diversa ai gio- vani immigrati. E qui io ti dico, per esperienza personale, che questi ragazzi che arrivano hanno una grande voglia di vivere e anche una capacità di sacrificio che è contagiosa, oltre che una forte capacità di esprimere leadership. Allora mi chiedo: perché la nostra società e la nostra politica hanno paura degli immigrati? Perché questo è diventato un tema ideologico, di scontro? Bisogna realizzare percorsi per integrare e regolarizzare le 150.000 persone che attendono in Italia e che hanno ormai «vite ferme», come si intitola il bel libro di Paolo Boccagni. Si sostiene, da parte del governo, che non dobbiamo farci imporre i migranti da chi li trasporta in Italia in modo illegale. Sia chiaro, nessuna tolleranza verso i trafficanti di esseri umani. Ma questa povera gente, quale altra via ha trovato di fronte? Quali spazi legali? E quanto ha sofferto in Libia? Un'impellente necessità li ha spinti su queste strade, in cui non hanno incontrato altro che gli scafisti. Non possiamo ora lasciarli languire nei campi o addirittura morire come avviene di continuo nello sfruttamento del caporalato. Bisogna vincere la logica del lavoro nero e aprire percorsi per loro.
EDITH BRUCK - Sono d'accordo con te: come ti ho detto sono stata profuga anche io e ho a cuore questi destini. E indecente: è per questo che lasciamo entrare gli immigrati? Per trattarli come fossero immondizia? Delle bestie e non degli esseri umani? E ora questa decisione di portarli in Albania, una decisione secondo me folle, costosa e inutile. Tutto per assecondare questo desiderio di tanti, purtroppo, di non avere più immigrati tra i piedi.
RICCARDI - Usare i migranti come tema di scontro politico e per alimentare le paure è tanto comune, in Europa, quanto scorretto. È da tanti anni che lo dico: il tema delle migrazioni dovrebbe essere trattato in maniera bipartisan, al di là della politicizzazione. Del resto, la nostra politica, gridata e contrapposta, non ha la capacità di creare spazi di dialogo e di consenso su questioni di fondo. Lo si vede anche sulla riforma costituzionale che cambia le regole di funzionamento dell'intero sistema politico. Ha ragione il cardinal Zuppi, presidente della Cei, quando afferma che per compiere questa operazione c'è bisogno di un «clima costituente». Riguardo agli immigrati, noi come SantTgidio ci impegniamo perché la visione su questi temi cambi radicalmente, perché sono in gioco questioni diverse e importanti: il futuro di centinaia di migliaia di persone, ma anche il futuro dell'Italia, un Paese che invecchia e non si può permettere di coltivare paure irrazionali.
BRUCK - SantTgidio è una realtà particolare, è una cosa direi quasi unica quello che avete creato e che promuovete nel mondo. E lì si incontra un'umanità speciale: anche i giovani sono molto diversi, hanno la dolcezza sul viso! Il tentativo di creare fili di amicizia e umanità con tutto il mondo è prezioso, e c'è anche evidentemente un discorso contro tutti gli odi, a partire dall'odio contro gli ebrei.
RICCARDI - È quello che cerchiamo di fare: la civiltà del futuro è vivere insieme tra diversi e la si costruisce tra generazioni differenti, ma anche integrando gli immigrati attraverso l'insegnamento della lingua e della cultura italiana e tanto altro. E poi bisogna rimettere i più poveri al centro, mentre, al contrario, scivolano ai margini della società. Sapendo che aiutare gli altri spesso libera sé stessi da una solitudine opprimente. Insomma bisogna riparare un tessuto umano lacerato da tante distanze, estraneità e odi. Diceva un antico patriarca orientale, en p hilia níke, nell'amicizia la vittoria. Credo che l'odio e l'indifferenza distruggano l'umanità. Bisogna riamicare le persone - uso questa parola antica che forse non ti piacerà.
BRUCK - Mi piace molto questa parola, invece.
RICCARDI - La spinta a riamicare fa avvicinare, incontrare, parlarsi, anche perché dall'incontro nascono legami. E tu, Edith, conoscerai senz'altro un'espressione ebraica meravigliosa che è tiqqun 'olam, riparare il mondo. Il tessuto umano del mondo è sfrangiato, rotto, lacerato... Allora che fare, se non questo lavoro di ritessitura, che inizia anche come opera personale ma che diventa comunitario? Non è quello che fai tu in una scuola? Che cosa fai se non tiqqun 'olam? Tu ripari il mondo davanti a quei ragazzi e inneschi dei processi. Un concetto ebraico che deve diventare patrimonio di tutti. Direi che questo è anche il tuo ruolo da umanista.
BRUCK - II mio ruolo da umanista, mi piace! Anche perché non possiamo abituarci alla normalità del male, il male non è normale; il bene dovrebbe essere normale, e bisogna alimentare quel poco di bene che c'è in ognuno, anche nella persona peggiore. Purtroppo molte persone non rispettano minimamente il prossimo, basta vedere il razzismo, basta vedere la prepotenza, la violenza per niente. In molti contesti la vita umana è deprezzata e ha perso il suo valore. Basterebbe così poco per stare bene, così poco. Quel poco di bene che c'è in ciascuno cambierebbe tutto. Io non mi rassegno al male, e nel mio piccolo, proprio piccolissimo, cerco di fare almeno un po' di bene in questo mondo. Nessuno dovrebbe rassegnarsi al male, perché tutti hanno la possibilità di fare un minimo di bene, non soltanto chi scrive o ha un nome famoso oppure va nelle scuole. Bisogna insegnare ai ragazzi fin da quando sono piccoli la condivisione, la pace, l'accoglienza, bisogna educare i figli al bene del prossimo e all'accoglienza del prossimo, al rispetto di chiunque sia, nero, bianco, musulmano, ebreo, perché ogni essere umano e ogni vita è preziosa. Il male del mondo va riconosciuto e affrontato. Invece spesso si accettano scorciatoie, e forse per sentirsi più sicuri, più rafforzati nelle proprie identità, in molti si mettono ad applaudire il dittatore del momento. Sia Mussolini o Videla. Il potere esercita sempre un grande fascino. Del resto piazza Venezia era strapiena ogni volta che appariva Mussolini. Prima applaudivano lui, poi festeggiavano la liberazione dal fascismo. Io credo che non fossero persone diverse, in parte erano le stesse persone. Ho vissuto questa dinamica personalmente durante il fascismo in Ungheria, quando tante povere anime del mio villaggio sono state avvelenate dalla propaganda: la stessa contadina mezzo analfabeta, che prima ti regalava le uova se gliele chiedevi, con l'avanzare della propaganda fascista finì per non dare più nulla a nessun ebreo. E poi, quando dopo la guerra sono arrivati i comunisti, all'improvviso in Ungheria erano tutti comunisti, da un giorno all'altro. Ma non è che la gente cambia da un momento all'altro, semplicemente ci si inchina al potere del momento. Io credo che per far crescere un'ombra di democrazia attraverso l'educazione, attraverso la scuola, attraverso i libri, attraverso la storia, ci voglia tempo. E non siamo ancora arrivati a una democrazia vera. (...) Io non credo che ci sia vera smemoratezza rispetto al fascismo. Il nostro governo attuale sa bene che cosa è stata la guerra e che cosa è stato il fascismo. E però sentiamo ancora dire prima gli italiani. No! Prima tutti gli esseri umani: non c'è chi viene prima e chi viene dopo. Invece la destra spadroneggia in tutta Europa, dalla Francia all'Ungheria, alla Germania, all'Italia: non c'è memoria, quindi. E sono d'accordo con te, è grave questa perdita di storia e di memoria. Io il mio vissuto lo vivo ogni giorno. Mai un solo giorno l'ho dimenticato. Mi aiuta a leggere anche il mondo di oggi e a immaginare il mondo di domani. Tutto è collegato. Non bisogna dimenticare in nessun modo, perché il passato non riguarda soltanto quello che hai vissuto tu, riguarda quello che è l'umanità oggi. Io non scrivo per me, scrivo perché spero profondamente che qualche goccia di bene in questo mondo possa arrivare dalle mie pagine. Per non rassegnarsi al male.
RICCARDI - Diceva don Pino Puglisi, ucciso dalla mafia a Palermo nel i993: «Se ognuno fa qualcosa, allora si può fare molto». Tu hai fatto molto, Edith. E ognuno di noi deve fare quello che è in suo potere per non rassegnarsi al male.
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Il libro Oltre il male di Edith Bruck e Andrea Riccardi esce il primo novembre per Laterza (pp. 124, €15; qui sopra la copertina). I due autori vengono da mondi diversi, non appartengono alla stessa generazione, hanno radici culturali e religiose differenti. Entrambi però hanno conosciuto il male. Bruck quello assoluto della Shoah; Riccardi lo ha incontrato negli scenari drammatici in cui ha operato, ad esempio in Mozambico, Libano, Siria. Nel volume, a partire dalle loro esperienze personali, dialogano su che cosa sia il male, su come possa essere affrontato e sulla necessità di non rassegnarci.
Gli autori
Edith Bruck (1931), scrittrice, è una superstite della Shoah.
Lo storico Andrea Riccardi (1950), ha fondato la Comunità di Sant'Egidio.
[ Andrea Riccardi e Edith Bruck ]