Nuovi italiani, l'integrazione nasce in aula

La scuola che inizia oggi in Liguria è un'istituzione affaticata. L'idea di scuola come ascensore sociale non funziona, soprattutto peri nuovi italiani.
Alcuni anni fa, in una struttura nel quartiere dove si trovava la scuola in cui insegnavo fu accolto un gruppo di giovani richiedenti asilo: quell'arrivo improvviso, in un clima già carico di nervosismo, creò parecchie tensioni. Decisi allora di organizzare una serie di incontri informali, andando a trovare quei ragazzi con alcuni studenti. L'incontro non fu difficile: con la simpatia spontanea e scanzonata dei giovani l'imbarazzo si sciolse immediatamente e dopo mezz'ora eravamo già tutti a giocare insieme.
Per aiutarli a imparare l'italiano, i miei studenti avevano pensato di scrivere alcune semplici parole su dei foglietti e tutti, a turno, dovevano tenere il foglio sulla fronte facendo delle domande per capire di che parola si trattasse. Il gioco si impantanò quando a Lamin, un giovane gambiano che già padroneggiava discretamente la lingua, toccò di indovinare la parola "sindaco". Per aiutarlo provai a dargli un suggerimento: «E' la persona più importante della città», gli bisbigliai all'orecchio. Lui sorrise, come chi aveva finalmente capito e, trionfante rispose: «E' il maestro».
Questo episodio mi torna in mente molto spesso, soprattutto in questa fase dell'anno, quando la macchina della scuola inizia a mettersi in moto, con la pesantezza di ingranaggi logorati dall'usura, con tanta retorica, spinta a volte più dall'inerzia che da una visione. La scuola che inizia oggi in Liguria è un'istituzione affaticata, e ripeterlo sembra ormai qualcosa di scontato, il ritornello stanco di un vittimismo corporativo o l'affermazione ingenua di chi non sa rassegnarsi alla realtà.
Eppure il problema è molto più profondo: l'idea di scuola come ascensore sociale - che spinge Lamin a provare gratitudine per chi lo aiuterà a risollevarsi dall'irrilevanza sociale e a trovare un ruolo dignitoso nel mondo - semplicemente non funziona, o, per lo meno fatica moltissimo. Il pavimento è appiccicoso, come dicono i sociologi per spiegare la difficoltà a risollevarsi da una condizione di marginalità sociale, e la scuola riesce a far poco per innescare processi di cambiamento decisivi. La questione è strategica. Lo è per il nostro Paese e lo è in modo ancora più decisivo per una regione anziana come la Liguria. E non è neanche sufficiente risolvere tutto con un altro ritornello, quello della assenza di risorse, soprattutto in questi ultimi anni, in cui l'Unione Europea con il Pnrr ha stanziato una mole di investimenti senza precedenti nella storia dell'istruzione, senza però dotare i Dirigenti di quadri intermedi al supporto organizzativo o di altro personale formato in grado di gestire la complessa rendicontazione. Così le scuole si ritrovano nella situazione paradossale di essere piene di soldi per formazione o per dotazioni tecnologiche, ma senza riuscire a gestirle, e faticando contemporaneamente ad acquistare le tende o la carta igienica.
Allora forse, prima di mettere mano alla manutenzione della macchina - manutenzione che è assolutamente urgente - occorre partire dalla domanda su dove vogliamo farci portare da questa macchina. E la grande sfida, lo dimostra il dibattito estivo sulla cittadinanza e sullo ius scholae, oggi è proprio quello di che fare della speranza, forse ingenua ma piena di energia, di Lamin e di tutti quelli che, come lui, arrivano nelle nostre città e ripongono nella scuola aspettative vitali.
Nelle classi delle scuole liguri oggi siedono quasi trentamila alunni con cittadinanza non italiana. In rapporto alla popolazione scolastica totale, la Liguria è la terza regione dopo Emilia-Romagna e Lombardia. Di questi, quasi il 61% è nato in Italia, cioè ha la pelle nera, ma alla domanda "di dove sei?" risponde con un bel sorriso "di Busalla". Eppure la nostra Regione ha un primato molto triste: le classi con oltre il 30% di alunni con cittadinanza non italiana nati all'estero sono più del doppio della percentuale nazionale. Nell'1,7% delle nostre classi un ragazzo su tre è straniero di prima generazione con docenti spesso ricchi di iniziative e di volontà, ma privi di strumenti efficaci, senza ore di italiano per stranieri, attività pomeridiane e mediatori culturali.
L'ex ministro Andrea Riccardi, fondatore di Sant'Egidio ha detto recentemente: «Fra dieci anni l'Italia perderà la capacità di integrare perché saremo tutti troppo vecchi per farlo. Questo è il momentum per attuare percorsi di integrazione e per dare un futuro a questo Paese». E la Liguria, in particolare, è demograficamente invecchiata, ma ha ancora le risorse per mettere in atto un processo d'integrazione: questo è possibile oggi - quando sono cadute tante vecchie diffidenze nei confronti degli immigrati - ma non sarà più possibile tra un decennio, se non si rinnova la popolazione con stranieri e nuove nascite.
La scuola in questo è a un bivio: diventare un'istituzione classista, che certifichi un silenzioso apartheid separando gli alunni in base alle opportunità, oppure scegliere di avere un ruolo e diventare il motore di un movimento reale di integrazione, raccogliendo la sfida di "fare gli italiani" delle prossime generazioni. Sono, queste, questioni complesse, che richiedono pensiero, risorse e un'attenzione differente, meno frammentaria e strumentale, da parte della politica. E richiedono persone: come tanti docenti che già oggi fanno un lavoro silenzioso e attendono supporto da tutti noi.
Lo sguardo carico di attese di Lamin e di tanti ragazzi nelle nostre classi sono lì ad affermare silenziosamente che, se saremo in grado di cogliere la sfida, un insegnante potrà ancora essere la persona più importante della città. 

[ Sergio Casali ]