La mia Foggia, bella e ferita

La mia Foggia, bella e ferita

Parla il nuovo arcivescovo
«Qui c'è un forte desiderio di riscatto», dice monsignor Giorgio Ferretti. «La Quarta Mafia? Col Vangelo in mano dobbiamo mostrare la stoltezza del vivere in modo prepotente»
«Ciao, sono don Giorgio, sediamoci qui, staremo più comodi per parlare». Ci accoglie così nel suo ufficio monsignor Giorgio Ferretti, genovese di 56 anni, nominato il 18 novembre del 2023 arcivescovo metropolita di Foggia-Bovino.
Una terra, quella foggiana, bella e difficile. Tante le emergenze: dall'esistenza della cosiddetta "quarta mafia" che sparge sangue e uccide anche innocenti, all'inquinamento ambientale, allo svernamento illecito di rifiuti, tanto da essere considerata una nuova "terra dei fuochi". Una terra spesso dimenticata e che non merita di salire agli onori della cronaca solo in occasione di fatti di sangue. Che ha bisogno di cura e attenzione, anche per valorizzare le ricchezze e il fermento civile presente. Una terra che ha atteso con trepidazione il suo nuovo arcivescovo.
Don Giorgio Ferretti, una laurea in Filosofia e una licenza in Teologia dogmatica, è soprattutto un uomo che sa scendere nel profondo e toccare con mano i bisogni e le fragilità umane. Per molti anni missionario in Mozambico, è stato anche assistente ecclesiastico dell'Associazione italiana guide e scout d'Europa cattolici ed è membro della Fraternità missionaria della Comunità di Sant'Egidio. Tantissimi i fedeli che il 14 gennaio scorso - quando don Giorgio ha preso possesso dell'arcidiocesi - lo hanno accolto presso un padiglione della Fiera di Foggia: la cattedrale, dove poi in serata ha celebrato una funzione religiosa, era troppo piccola per accogliere tutto il popolo e lui, don Giorgio, ci teneva a non lasciare fuori nessuno.
Eccellenza, Foggia l'ha accolta a braccia aperte. Se l'aspettava?
«È stata un'accoglienza particolare che viene da una terra bella ma ferita. Un'accoglienza che manifesta il desiderio forte di un riscatto. Ho trovato un grandissimo entusiasmo, ma penso che non sia per la mia persona. È un entusiasmo per questo tempo nuovo che possiamo costruire insieme. Qui vive una Chiesa con radici antiche, gente buona che desidera il bene per la propria terra. Io sono stato missionario in Mozambico e continuerò a essere missionario anche qui. Lo ha detto chiaramente il Papa che tutto il mondo è terra di missione anche se in modo diverso. Qui possiamo comunicare il Vangelo in un tempo difficile e in una società con molte sfide. Insieme possiamo cambiare».
Lei ha un'attenzione particolare per i giovani.
«I giovani sono il nostro futuro e per questo li dobbiamo sostenere e accompagnare. Glielo dobbiamo in un tempo in cui c'è assenza di padri e maestri buoni di vita. Con le parole del Signore, dobbiamo mostrargli che l'egoista è un uomo triste, anche se magari ricco. Poi, dobbiamo far comprendere loro che senza studiare, senza la cultura, si rischia di cadere nelle mani del primo pifferaio magico che ti strascina dietro di sé a fare il male. Dobbiamo aiutarli a studiare. Ma questo non basta: dobbiamo pensare e impegnarci per creare lavoro per i nostri giovani. A loro dobbiamo lasciare qualcosa di buono».
Foggia è conosciuta per la presenza della "quarta mafia" e di una subcultura di quel tipo. Che contributo può dare la Chiesa?
«Con il Vangelo in mano, dobbiamo mostrare la tristezza e la stoltezza del vivere in modo prepotente, violento, sfruttando gli altri. La felicità viene dal dare e non dal ricevere. Beati sono gli operatori di pace, i miti, coloro che amano e costruiscono una società bella e solidale. Sembra semplicistico, ma è il segreto del vero successo di una vita».
Quali sono le altre sfide per liberare questa terra?
«L'inquinamento è una di queste grandi sfide. Da troppo tempo, anche in Capitanata, si assiste a un attacco alla casa comune. Anche qui sono cominciati gli svernamenti di materiale altamente inquinante. E questa provincia vive principalmente di agricoltura. Allora dobbiamo chiederci: cosa stiamo lasciando ai nostri figli? È una situazione drammatica che mette a repentaglio la vita, l'economia e l'ambiente. E poi c'è il problema dell'immigrazione clandestina e del caporalato. La Chiesa sta facendo la sua parte, la Caritas diocesana sta facendo molto. È chiaro che non ci possiamo né vogliamo sostituire alle istituzioni. Nella mia prima omelia ho affrontato il tema dei nuovi italiani. In diocesi ci sono antichi italiani e nuovi italiani, immigrati anche di confessione cattolica, i loro figli sono nati in Italia: sono tutti figli nostri. Quello che possiamo e dobbiamo fare noi è integrarli nelle comunità religiose».
L'esperienza scout e Sant'Egidio cosa le hanno insegnato?
«Ero un giovane in una parrocchia di Genova e la Comunità di Sant'Egidio chiese dei locali al parroco per fare doposcuola gratuito ad alcuni bimbi rom. Era il 1987 e chiesi di poter partecipare. Non mi dimenticherò mai di quei piccoli che venivano al doposcuola scalzi. Poi mi invitarono a visitare gli anziani in istituto. È stato il mio primo incontro con una povertà dura e drammatica. Sant'Egidio per me è stata una grande scuola di amore per il Vangelo, i poveri e la pace. In Africa ho incontrato una povertà così grande, unita a un desiderio dei giovani di riscatto, di amore gratuito per gli ultimi e questo mi ha cambiato per sempre. A Frosinone sono stato assistente e Baffi negli scout. Lo scoutismo è un metodo interessante e attuale per i nostri ragazzi, che ha successo, e lo vediamo nelle parrocchie. Portatore di valori di vita e cristiani importanti».
Nel mondo ci sono ancora troppe guerre. Cosa può fare la Chiesa?
«La violenza è sempre una grande sfida. Papa Francesco parla di una terza guerra mondiale a pezzi e tutta questa violenza ritorna nella società e nelle famiglie. La guerra è il male assoluto. Io l'ho vista in Kosovo, in Mozambico. La guerra è il diavolo che ride e deride gli uomini. È la fine dell'umanità. È l'abisso. Io credo che la preghiera per la pace, il lavorare per la pace siano una priorità del mondo ecclesiale. Dobbiamo lottare e pregare contro la guerra e contro ogni violenza».
 

 


[ Luca Pernice ]