Corridoi umanitari. Integrazione rapida e fecondità di vita

L'editoriale

Un sogno divenuto realtà e un segno che si può fare. Chiamerei così l'incontro che Papa Francesco ha avuto in Vaticano sabato 18 marzo con le famiglie arrivate in Italia e accolte attraverso i corridoi umanitari. L'esperienza dei corridoi è nata pochi anni fa come un grido positivo e creativo di protesta verso le istituzioni nazionali ed europee, che si trinceravano in discorsi sterili e passivi rispetto all'immigrazione.
Quando le istituzioni dicevano che non si può fare nulla rispetto alle scene strazianti degli arrivi drammatici, la Comunità di Sant'Egidio, la Federazione delle Chiese Evangeliche, la Tavola Valdese, la rete della Chiesa italiana attraverso la Caritas italiana e le Caritas diocesane, hanno pensato di ribellarsi e tentare una strada. La potremmo chiamare nel linguaggio tecnico una "buona pratica". Tuttavia, non si tratta solo di una buona pratica ma di una pratica creativa e feconda.
Ne sottolineo tre aspetti. "Corridoi umanitari" è il nome, ma li chiamerei "corridoi umanizzati e umanizzanti". Ci sono vari modi di arrivare sul territorio europeo, e sono tutti corridoi, spazi e 
spiragli che si aprono a viaggi della speranza o della disperazione. Ma arrivare da soprawissuto sulle coste del mare, o attraverso i sentieri, dove si assiste alla stessa morte di alcuni compagni di viaggio, porta con sé un trauma e una umiliazione che difficilmente guarirà nella vita dello straniero. Arrivi con la sensazione che hai quasi rubato, che ti sei introdotto come un ladro e il vissuto personale con la società di arrivo diventa un ulteriore percorso di necessità di riconciliazione. Arrivare invece con i corridoi umanitari, dove dal momento della partenza fino all'arrivo, ti viene detto a parole e nei fatti che "tu esisti", "desideriamo camminare con te", "ci saremo", "benvenuto", comporta una dose ricca di speranza e di energia per ricostruirsi la vita. Ecco perché li chiamerei corridoi umanizzanti.
Un secondo aspetto di buona pratica è quella dell'accoglienza reciproca. Perché il patto che viene siglato da subito è quello di relazioni a doppia direzione: c'è un posto per te, fatto non tanto di spazio quanto di relazione quotidiana. Le persone e le famiglie accolte sanno di non doversi limitare soltanto a ricevere ma sin da subito attivarsi per costruire il loro futuro, camminando in modo deciso con le 
persone che le accolgono. Non sono guardate e accolte tanto come portatori di vulnerabilità e di ferite, quanto di grande ricchezza da condividere. E per lo straniero, questa prospettiva spazza via le resistenze, soprattutto la sensazione di essere portatori di una cultura e una identità di minorità.
Infine, un terzo aspetto bello di questa pratica è l'integrazione accelerata. Si, perché sempre di più i corridoi umanitari, portati avanti dal momento dell'arrivo attraverso i canali dell'accoglienza diffusa in comunità parrocchiali, istituti religiosi e famiglie, producono una integrazione più rapida. Se ti senti accolto come portatore di valore, di cultura diversa ma altrettanto bella quanto quella di arrivo, ti apri più facilmente. E' come se il fiore accelerasse la fioritura perché ci sono tanti occhi fissi e impazienti a vedere il suo fiorire.
Concludo quindi invitando tutti a non avere paura a dare disponibilità nell'accogliere. La fecondità di vita che stiamo toccando con mano attraverso questa via è un ricco fiorire di vitalità nelle famiglie che accolgono, nelle comunità e nei gruppi. Non privatevi di questa possibilità di fioritura di vita, ma osate ad intraprendere il viaggio della condivisione!

* vescovo ausiliare

[ Benoni Ambarus ]