Augusto D'Angelo. "Oleg, Mario e gli altri la mensa è una porta aperta sul mondo"

L'intervista
Il docente universitario e volontario di Sant'Egidio: Non bastano cibo e riparo, vanno aiutati anche dopo"

«Aiutare gli altri vuol dire aiutare innanzitutto sé stessi, perché si diventa persone dagli orizzonti più ampi», dice Augusto D'Angelo, 60 anni, docente di Storia contemporanea alla Sapienza ma anche volontario della Comunità di Sant'Egidio dai tempi della fondazione.
Quando ha iniziato?
«Avevo 15 anni, frequentavo il liceo Righi. Era la fine degli anni Settanta, il momento delle manifestazioni, delle p38, c'era ancora il mito di una politica che potesse cambiare il mondo. A scuola entrai in contatto con degli amici della Comunità di Sant'Egidio che si occupavano di bambini della periferia romana. Abitavo in Prati, cominciai a prendere gli autobus che portavano alla periferia estrema, luoghi come Primavalle o le case popolari che stavano nascendo in fondo alla Prenestina. Scoprii un mondo totalmente diverso da quello in cui ero cresciuto. Dal contatto con bambini che erano ai margini della società nacque l'esigenza di provare a rimboccarsi le maniche per vedere che cosa si poteva fare in prima persona. Ero cattolico, frequentavo la parrocchia e nelle parrocchie si parlava ma si faceva poco. In questo modo trovai una dimensione in cui si coniugava l'essere cristiani con un'azione che il cristianesimo lo viveva sul serio».
Non ha più smesso. Ancora adesso è un docente universitario e prosegue l'impegno con la Comunità di sant'Egidio.
«Ho sempre dedicato una parte del mio tempo alle persone che hanno bisogno di aiuto. Sono diventate parte di una famiglia che è la famiglia di Sant'Egidio ».
Quali sono le attività che svolge?
«Partecipo alle cene itineranti. Vuol dire non solo portare la cena alle persone che vivono per strada ma anche fermarsi ad ascoltare i problemi delle persone».
Per esempio?
«C'è Oleg che ha la famiglia a Odessa e racconta le notizie che arrivano da questa guerra tragica che è tornata a insanguinare l'Europa. C'è Mario, nel dopoguerra un giovane sciuscià romano che ha sempre vissuto condizioni di grande fragilità dal punto di vista abitativo. Ora è un ottantenne, siamo riusciti a farlo operare di cataratta alcuni anni fa facendogli recuperare la vista e gran parte dell'autonomia a cui ambiva e siamo riusciti a dargli un posto dove dormire. Un paio di volte a settimana, poi , vado alla mensa di via Dandolo che è una porta aperta sul mondo, dove si riversano i drammi planetari. Quando si è deciso di esportare la democrazia in Afghanistan la mensa si è riempita di afghani perché esportavamo la democrazia ma, nel frattempo, importavamo afghani. E poi siriani, ucraini e tanti italiani a causa dell'infragilimento dell'economia nell'ultimo trentennio. Dopo la crisi del 2008 e la pandemia gli italiani sono aumentati».
Chi sono?
«Persone anziane che hanno ancora una casa ma, per avere i soldi per pagare le bollette e l'affitto, vengono alla mensa. Ci sono persone che la casa l'hanno persa, quelli che hanno affrontato il divorzio e che dormono in macchina. Ci sono persone che hanno perso il lavoro. Sono pizzaioli, camerieri, addetti alle pulizie, appartengono all'economia sommersa e durante il lockdown si sono trovati senza impiego. Mentre tutto era chiuso e in strada chi aveva bisogno non trovava nemmeno qualcuno che facesse l'elemosina, Sant'Egidio non ha mai chiuso la mensa. A marzo 2020 avevamo tre centri di distribuzione alimentare, a giugno erano 28. Abbiamo dato cibo a tanti e abbiamo visto anche tante persone tornare quando l'economia è ripartita. Ci hanno detto: mi avete aiutato, ora sto meglio e voglio aiutarvi. Ma aiutare è solo una parte del nostro impegno. Non basta che chi non ha cibo possa mangiare o che chi non abbia una casa trovi un riparo. Le persone vanno aiutate prima e dopo, per far sentire a ciascuno di essere parte di questa grande rete che prova a sognare di non lasciare da so
lo nessuno»


[ Flavia Amabile ]