Quel che resta di Gorbaciov, eroe tragico

Il personaggio

 Il giudizio storico sulla figura di Michail Sergeevič Gorbačëv e sulla perestrojka è controverso. È oggetto di confronto scientifico tra studiosi, ma anche di differenti valutazioni nel dibattito pubblico, con sensibili differenze di accento tra le discussioni in ambito russo, nel contesto di altri paesi ex sovietici o che hanno fatto parte del blocco comunista, nel quadro dell’opinione pubblica occidentale.
Ci troviamo di fronte a una personalità complessa e una vicenda 
storico-politica multiforme. Alcuni hanno sostenuto che la sua azione politica alla guida dell’Unione Sovietica si sia risolta in un fiasco: se il suo obiettivo era di riformare il sistema e di condurre il paese verso un futuro migliore, il risultato tuttavia è stato il collasso del sistema e la frammentazione dell’URSS. Gorbačëv si è definito «un prodotto della nomenklatura sovietica e allo stesso tempo il suo anti-prodotto, il suo ‘becchino’».
Figlio del mondo sovietico, 
era un credente sincero nel marxismo-leninismo e un convinto sostenitore del socialismo. Apparteneva alla generazione che aveva partecipato delle attese del disgelo di Chruščëv e aveva fatto suoi gli ideali e gli intenti di quella stagione di riforma del sistema non priva di ambiguità, basata, dopo lo stalinismo, sull’idea di tornare a Lenin e di riproporre lo spirito del 1917. Il mito di Lenin, di un Lenin idealizzato, e del ritorno alle origini del socialismo alimentò la fede nella potenza delle idee rivoluzionarie e animò la ricerca di cui Gorbačëv si fece interprete, quella di rilanciare il comunismo cercando di realizzare un socialismo dal volto umano. 
Gorbačëv era animato da un universalismo idealistico che poggiava sulla visione di un comunismo riformatore, che avrebbe riportato il sistema sulla via di un autentico socialismo. Il paradosso della vicenda della perestrojka è consistito nel fatto che la credenza in un socialismo dal volto umano ha reso possibile la pacifica autodistruzione del sistema. L’idealismo e il romanticismo dello slancio riformatore, che erano alimentati dalla tensione a trasformare la società, radicata nella visione comunista della storia, innescarono il processo che condusse al collasso del sistema.
Fece difetto una visione della strategia 
politica da portare avanti per realizzare la perestrojka. Lo smantellamento della centralità del partito comunista, che fu il perno del processo di democratizzazione che a partire dal 1988 il segretario generale avviò con il suo programma di riforme politiche, fu allo stesso tempo il punto di maggiore criticità, perché indebolì l’architrave dell’intero edificio sovietico segnandone il destino.
D’altronde il partito era l’unico soggetto che avrebbe avuto interesse a 
realizzare un progetto di comunismo riformatore oltre che ad avere le leve per intervenire sui meccanismi del regime. Tuttavia l’impresa di riformare il sistema era verosimilmente una sfida impossibile da vincere. Più realistica era probabilmente la via di qualche aggiustamento finalizzato al mantenimento del sistema stesso, che nella sua irriformabilità non avrebbe comunque avuto presumibilmente grande avvenire. 
Ma era una prospettiva che non rispondeva né al senso di crisi sistemica che assillava il gruppo dirigente della perestrojka, né alle caratteristiche della personalità di Gorbačëv, animata da una miscela di sincero idealismo e di volontarismo di tradizione bolscevica.
In alcune conversazioni, che ebbi 
l’occasione di avere con Gorbačëv nel 2001, egli non mi nascose il dramma storico che dovette affrontare: «Noi ci rendevamo conto che il sistema non andava, che nel partito c’erano tante storture, alcune anche orribili. Eravamo figli del XX congresso, degli anni di Chruščëv: eravamo della generazione degli anni sessanta che aveva sognato un cambiamento della società sovietica e che poi si era scontrata con la stagnazione di Brežnev. Dentro di noi abbiamo vissuto la terribile ricerca di una strada d’uscita dalla situazione in cui si trovava l’Unione Sovietica. La perestrojka intendeva rispondere a questa ricerca. Solo dopo ho capito che il sistema non si poteva riformare, ma doveva essere cambiato: ma come capirlo  prima?». 
C’è un altro dato della sua cultura politica che occorre mettere in rilievo. L’opzione per il dialogo e la persuasione come strumenti della politica ha caratterizzato la sua azione, nei successi e nei fallimenti. È indiscutibile che il suo contributo sia stato decisivo per mettere fine alla guerra fredda, al conflitto bipolare fondato sull’equilibrio del terrore degli arsenali nucleari. Egli riteneva che la perestrojka dovesse condurre a un nuovo ordine internazionale, sulla base della interdipendenza e del rifiuto del ricorso alla violenza. 
La fine dei regimi comunisti in Europa centro-orientale nel 1989 è stata sostanzialmente resa possibile dalla politica di Gorbačëv e dalla sua decisione di non intervenire militarmente né di interferire nei processi politici di quei paesi. Un dilemma analogo si ripresentò nelle battute finali dell’esistenza dell’Unione Sovietica. Nel corso della perestrojka non mancarono episodi di repressione violenta da parte delle truppe sovietiche, da Alma Ata a Tbilisi a Vilnius. Tuttavia il Cremlino non scelse mai di percorrere la strada della violenza sistematica per la risoluzione delle tensioni che si trovò ad affrontare. 
A orientare le decisioni di Gorbačëv fu la convinzione che non si dovesse ricorrere all’uso della forza; convinzione fondata sul rifiuto di pratiche di governo che risalivano alla cultura politica staliniana, ma più generalmente bolscevica, così intrisa di violenza fin dalle sue origini. «Alcuni mi chiedono perché non ho adottato misure forti, perché non ho utilizzato gli strumenti coercitivi di cui disponevo. Non l’ho fatto perché ero profondamente convinto che quei mezzi fossero ingiusti e disumani» – così ebbe a dirmi nei nostri colloqui. 
Un fine intellettuale russo, Dmitrij Furman, ha scritto un giudizio penetrante di Gorbačëv, che merita di essere riportato: «Gorbačëv è stato l’unico politico nella storia russa che, avendo nelle proprie mani il pieno potere, consapevolmente, in nome di valori ideali e morali è andato incontro a una riduzione di quel potere e al rischio di perderlo. Egli aveva altri criteri di successo. Secondo le regole della politica avrebbe dovuto fermare, prima che fosse troppo tardi, l’anarchia scatenatasi. E non ci sarebbe stata la sconfitta. Ma secondo le sue regole non poteva farlo. Secondo le sue regole sarebbe stata una sconfitta. Secondo queste regole la sua sconfitta è stata una vittoria». 
È stato un protagonista della storia del tardo Novecento Gorbačëv, la cui vicenda è stata segnata da una dinamica paradossale tra l’idealismo umanistico di un neoleninista e l’esito dei processi innescati dalle sue scelte politiche. William Taubman conclude la sua biografia dell’ultimo leader sovietico, definendolo un «eroe tragico». È stato, per continuare a usare le parole del biografo, «un visionario che ha cambiato il suo paese e il mondo».


[ Adriano Roccucci ]