Per un tozzo di pane

La condizione dei minori in Benin, dal mercato di Cotonou alle zone rurali

I numeri «sono grandi», non è possibile individuarli «con precisione», ma la piaga del lavoro e dello sfruttamento minorile in Benin non è nuova. Padre Raymond Goudjo, direttore della Caritas diocesana di Cotonou, da anni è impegnato al fianco delle autorità nell'assistenza e nel recupero dei bambini di strada. «Sono in tanti a girare per la città con merce da vendere, fanno piccoli lavori di meccanica, sono impiegati nei cantieri edili», racconta il sacerdote, già rettore del Seminario interdiocesano di Tchanvédji dal 2012 al 2018: «Sperano di imparare un mestiere ma non hanno una paga, non guadagnano niente, solo qualcosa da mangiare».
Con 12 milioni di abitanti, il Benin è al 158° posto per indice di sviluppo umano, secondo il rapporto 2020 dell'Onu. Negli ultimi anni nel Paese africano si sono moltiplicati gli forzi per eliminare il fenomeno: l'obiettivo del governo è «zero bambini lavoratori entro il 2025», aggiunge Léopold Djogbédé, responsabile della Comunità di Sant'Egidio
 in Benin, che però sottolinea come il lavoro minorile continui ad essere sfruttato anche per mansioni domestiche o nelle cave per le estrazioni minerarie.
Di fatto «il fenomeno è diffuso in città come nelle zone rurali, dove bambini e ragazzi lavorano perlopiù nei campi», sottolinea padre Goudjo: in quelle realtà, poi, «succede spesso che le ragazze vengano prese con la forza e sottoposte a pratiche voodoo e a matrimoni forzati». La Caritas diocesana per i bambini in difficoltà opera in due centri di ascolto e orientamento, quello femminile intitolato a Sant
a Giuseppina Bakhita e quello maschile, il Saint Joseph de Regard d'Amour. «I bambini che arrivano - spiega il sacerdote - sono piccoli che un giudice invia da noi, dopo che la polizia li ha generalmente fermati per furto, per aver commesso violenze o averle subite», precisando come sia importante in questo iter un pronunciamento di un magistrato «perché si sono verificati casi in cui delle Onlus, che dovevano sulla carta aiutare questi bambini, in realtà li sfruttavano».
Alla Caritas «si inizia con l'ascolto, poi con la scuola, ci sono alcuni che vanno anche all'università, altri imparano da subito un mestiere, di sartoria o di cucina; poi - va avanti padre Raymond - cerchiamo di entrare in contatto con le famiglie d'origine, facciamo delle indagini per vedere se ci sia la possibilità di un rientro a casa oppure no. Talvolta riusciamo a farlo, talvolta non riusciamo neppure a contattare le famiglie: ci sono tante bambine che vengono addirittura dal Togo».
Non di rado, inoltre, si assiste a una degenerazione delle pratiche tradizionali di affidamento dei minori, fortemente radicate nel tessuto sociale. «È tradizione, da noi, che parentí o amici si prendano cura di bambini appartenenti a famiglie che non riescono a farlo, assicurando di portare il bambino o la bambina dal villaggio a Cotonou, per dar loro la possibilità di studiare e di portare soldi a casa: quando vengono in città però finiscono con l'essere sfruttati dai loro stessí parenti e familiari», prosegue don Goudjo.
«Molti di questi giovani lavorano al mercato di Cotonou, dormono anche lì. E tutti, ragazzi e ragazze, ci raccontano che appena arrivano, la prima notte, subiscono violenza sessuale. Alcuni vengono destinati alla prostituzione e finiscono in Nigeria, in particolare a Lagos», riferisce il direttore della Caritas locale. Della realtà del grande mercato all'aperto della città, Dantokpa, parla anche Léopold Djogbédé.
Spiega come la Comunità di Sant'Egidio
 sia arrivata in Benin nel 2000 e abbia dato subito vita alla Scuola della pace, realtà completamente gratuita che sostiene i bambini nel percorso scolastico - circa 2.000 in tutto il Paese e 400 solo a Cotonou - con una sorta di tutoraggio, aiutando le famiglie in difficoltà. Strettamente legato a tale impegno è il lavoro «con i bambini di strada, che hanno abbandonato la scuola. La maggior parte di loro - evidenzia - vive e lavora proprio a Dantokpa. Con i nostri operatori, andiamo a parlare con loro e li invitiamo nella Casa della nostra Comunità, la Maison du Réve, che vuol dire "Casa del Sogno". Vengono almeno una volta a settimana, per lavarsi, pulire i loro vestiti, perché non hanno occasione di farlo altrove. E anche a mangiare, soprattutto la domenica, quando a venire sono in 70-80 ragazzi, perché il mercato è chiuso e non trovano cibo. E ne approfittiamo per fare piccoli progetti di inserimento sociale».
Davanti a loro, nessuno si fa illusioni, c'è un domani incerto. «Alcuni ragazzi - assicura il direttore della Caritas diocesana di Cotonou - tornano in famiglia, altri no. Tre mesi fa una giovane che era stata da noi e che si era sposata è tornata con i suoi due bambini, per sfuggire a un matrimonio di sofferenza». Ma c'è anche chi «sta studiando contabilità all'università e ringrazia la Caritas e le suore domenicane da cui andava a scuola per aver creduto nelle proprie possibilità».
E c'è chi dalla strada è andato via, con l'aiuto della Comunità di Sant'Egidio
 è diventato un fornaio e, prima di lasciare Cotonou per il nord, ha portato la propria testimonianza di vita tra la gente: perché, come ha scritto Papa Francesco nel messaggio dello scorso anno all'Incontro globale della Fao sull'eliminazione del lavoro minorile ín agricoltura, «un'opera di denuncia, di educazione, di sensibilizzazione» può spingere «quanti non si fanno scrupoli a schiavizzare l'infanzia» a vedere «più lontano», ponendo fine ad un «flagello che ferisce crudelmente l'esistenza» dei più piccoli e incamminandosi verso un futuro «luminoso per la famiglia umana».


[ Giada Aquilino ]