Nazionalismo, la nuova bestia

Simona Merlo, professoressa associata di Storia contemporanea all'Università Roma Tre, appartiene alla Comunità di Sant'Egidio. Interverrà al Festival Biblico sabato 28 maggio alle 10.30

«La mediazione per la pace non può giungere da Chiese in guerra le une contro le altre». È amara e al contempo realistica la constatazione di Simona Merlo, professoressa di Storia contemporanea all'Università di Roma Tre, esperta del mondo religioso dell'Europa orientale. Non si può darle torto: al momento dell'invasione russa dell'Ucraina, l'Ortodossia giungeva dall'ennesimo strappo della sua storia recente. Il 15 dicembre 2018 un «concilio di unificazione» ha dato vita alla Chiesa ortodossa dell'Ucraina, guidata dal metropolita Epifanii, con il riconoscimento dell'autocefalia da parte del patriarca ecumenico di Costantinopoli, Bartolomeo I.
La nuova Chiesa ortodossa nazionale assorbe al suo interno le due Chiese ucraine fino a quel momento considerate scismatiche che convivevano accanto alla Chiesa ortodossa ucraina presieduta dal metropolita Onufrii, in comunione con il patriarcato di Mosca. Quest'ultima ha rifiutato di partecipare al «concilio di unificazione» e contesta la validità dell'autocefalia concessa da Costantinopoli. E poi, in Ucraina vi è anche la presenza della Chiesa greco-cattolica, dipendente da Roma, concentrata soprattutto nella parte occidentale del paese.

Allo scoppio della guerra, il metropolita Onufrii, smarcandosi dalle posizioni di allineamento al Cremlino del patriarca di Mosca Kirill, non ha esitato a chiedere al presidente russo di scongiurare «lo spargimento di sangue e il fratricidio di popoli che discendono dall'unico fonte battesimale». Ma le divisioni restano e la guerra non sembra affatto accelerare un riavvicinamento dell'Ortodossia ucraina.
Professoressa Merlo, alla luce di tutto questo, si può dire che vi è una "causa religiosa", interna all'Ortodossia, della guerra in Ucraina?
«Le divisioni religiose sono una delle componenti delle tensioni, incomprensioni e contrasti che da tempo attraversano la società ucraina, ma non direi siano una concausa della guerra. Sottolineerei, piuttosto, che Chiese divise e mondo cristiano diviso fanno sì che questi non possano essere una voce rilevante per la pace perché non possono promuovere il dialogo».
Nel passato era comunque andata diversamente?
«In queste settimane non ho percepito quella collaborazione tra Chiese e religioni che c'era stata nel 2014 all'epoca della "Rivoluzione della dignità", a conclusione delle proteste di Euromaidan che portarono alla fuga di Viktor Ianukovyè, il presidente filorusso che, all'ultimo momento, non aveva voluto firmare l'accordo di associazione e libero scambio con l'Ue. Ai tempi, l'Ortodossia ucraina era tripartita ma c'era stata una voce unitaria che invitava alla pacificazione della società. È chiaro: era un altro contesto. Ma questa volta l'afasia è evidente».
C'è un problema di teologie incompatibili interne all'Ortodossia ucraina?
«No. Però va notato che fino al cosiddetto "Concilio di unificazione", le due Chiese non legate a Mosca - il patriarcato di Kiev e la Chiesa autocefala ucraina - erano considerate scismatiche da tutte le Chiese ortodosse. La seconda, in particolare, nasce nel 1921, nel contesto del movimento nazionale ucraino, senza che nessun vescovo ortodosso dell'Ucraina vi aderisse, ricorrendo alla "autoconsacrazione", e fu per un certo periodo appoggiata dei bolscevichi che volevano indebolire il patriarcato di Mosca. L'altra Chiesa si forma invece all'inizio degli anni Novanta come uno scisma interno al patriarcato di Mosca quando il metropolita di Kiev, Filaret, rompe per ragioni personali e, ancora una volta, con l'appoggio del nascente Stato ucraino che vuole una Chiesa slegata dalla Russia dopo la dissoluzione dell'Urss. Ed è per questo che il clero e i vescovi legati a Mosca che oggi manifestano il loro disagio per le parole di Kirill, hanno altrettanto disagio a confluire in una Chiesa al cui interno ci sono vescovi di cui non riconoscono la successione apostolica».
La politica quanto conta nelle dinamiche interne alle Chiese ucraine?
«Petro Poroscenko, il presidente poi sconfitto alle elezioni del 2019 da Volodymyr Zelenskyi, aveva basato la sua campagna elettorale sullo slogan "armiia, mova, vira", "esercito (era in corso la guerra del Donbass), lingua, fede". Quest'ultimo elemento allude all'orgoglio di aver favorito la costituzione di una Chiesa ortodossa nazionale ucraina riconosciuta dal mondo ortodosso, o meglio, da una parte dell'Ortodossia».
Pare non ci sarà un incontro tra Francesco e Kirill. Ma i contatti tra le due Chiese potrebbero rinforzare la loro voce sulla via della pace?
«Il Papa è rimasto una sponda per il patriarcato di Mosca, che infatti tiene aperta la porta del dialogo. Diversamente finirebbe del tutto in un angolo. Credo che anche Francesco voglia tenere aperto il canale». L'abbraccio tra il potere politico e l'autorità religiosa che caratterizza molte Chiese ortodosse si sta rivelando mortifero?
«Le Chiese ortodosse si vanno a configurare come Chiese della nazione. Invece il patriarcato di Mosca era rimasto l'unico organismo sovranazionale e non si è mai pensato come la Chiesa nazionale dei russi etnici bensì quale riferimento per gli ortodossi dello spazio ex sovietico e anche con qualche estroversione verso il resto del mondo. Il nazionalismo imperiale putiniano ora sta facendo cambiare il patriarcato di Mosca».
Per stare sulle immagini dell'Apocalisse, la nuova "bestia" è la Chiesa che si mette sotto tutela dello Stato, sperando di incassare qualche vantaggio?
«Io credo che il problema sia il nazionalismo che nella nostra epoca viene riabilitato come un grande valore. Ciò non riguarda solo gli ucraini o i russi, né solo gli ortodossi, ma interssa anche la nostra cultura dell'Europa occidentale. E così, anche le Chiese diventano portavoce dei vari nazionalismi. Invece, le radici dell'Unione europea consistono proprio nel superamento dei nazionalismi, nello stare insieme, nell'integrazione...».
Spiragli di speranza?
«Occorre continuare a dialogare e a dialogare con tutti: le porte lasciate socchiuse offrono spiragli. È vero nelle relazioni tra le Chiese come in quelle tra gli Stati. Invece si va diffondendo l'idea che con il nemico non si dialoga. Ma con chi si deve fare la pace se non con il nemico?».

 


[ Paolo Rappellino ]