Il prete degli zingari

Don Mario Riboldi nomade per il Vangelo
Un’intera vita dedicata alla pastorale con i rom e i sinti a Milano e in tutta Europa

«Don Riboldi – santo prete – da Vittuone a Casirate». Così si legge in un appunto del 18 gennaio 1956 sull’agenda di Montini. Per capire perché l’arcivescovo di Milano usasse parole così elogiative per un sacerdote allora solo ventiseienne, occorre tornare a Brugherio, il piccolo campo alle porte di Milano dove monsignor Riboldi, detto “Mario degli Zingari”, ha fatto base per trent’anni anni insieme ad alcune famiglie di sinti tedeschi e italiani.
Ci accoglie Maria Reinhardt, che tutti chiamano Pupala, 64 anni, e indica la piccola roulotte dove il sacerdote alloggiava insieme al barnabita padre Luigi Peraboni. Lì accanto, un container di circa cinque metri per due è stato trasformato in una vera chiesetta. Il tabernacolo richiama la tradizione nomade: è una piccola tenda in stoffa, mentre la Bibbia è sul “trincast”, un supporto di tre legni sul quale i rom in passato appoggiavano la padella per cucinare. Don Mario è morto lo scorso 9 giugno, a 92 anni, gli ultimi tre passati in un istituto a Varese. «Mi ha portato – dice la Pupala – sulla strada di Dio. Prima entravo in Chiesa, accendevo una candela e via… Lui mi ha insegnato a “fare la Bibbia”: leggerla e capirla. Ti spiegava la Parola in un modo che ti entrava dentro, non la dimenticavi».
Prima di partire, magari per visitare dei rom a Salerno o nell’Est Europa, don Mario assegnava i compiti a piccoli e grandi: una preghiera da imparare, un pezzo della Bibbia da leggere. «Una volta – ricorda la Pupala – si commosse fino alle lacrime perché, durante la sua assenza, una ragazza aveva tradotto un Salmo nella sua lingua». 
La sua vita è stata dedicata alla pastorale con i rom e sinti nella diocesi di Milano e in tutta Europa.
Diceva: «Noi li amiamo così. Non puoi aspettare che diventino amabili. Così ha fatto Dio: quando eravamo ancora peccatori, ha mandato Gesù». Nel ’56 Montini lo chiamava “santo prete” e lui era già malato di quella che, con ironia, poi chiamerà “carovanite”. Da tre anni era avvenuto l’incontro che gli aveva cambiato la vita: «Ero prete da un mese – mi raccontò in un’intervista proprio a Brugherio tempo fa – e stavo andando in bici a confessarmi, quando ho visto un gruppo di zingari e mi sono chiesto: chi porta il Vangelo a questo popolo?». 
Nel ‘62 accompagna Montini ad incontrare un gruppo di rom croati e abruzzesi che vivono in tende in un bosco vicino alla sua parrocchia; quando il cardinale diviene Papa, nel ‘65 promuove l’incontro di Pomezia con tremila rom e sinti giunti da tutta Europa. La pioggia a dirotto trasforma il campo in cui sono allestite tende e roulotte in un pantano e fa crollare l’altare prima della Messa, ma Paolo VI dice: «Voi nella Chiesa non siete ai margini, ma, sotto certi aspetti, voi siete al centro, voi siete nel cuore».
Susanna Placidi della Comunità di Sant’Egidio di Roma, per decenni amica di don Mario e che a quella giornata memorabile ha dedicato un libro, spiega: «È una storica riconciliazione con i rom e sinti (le vicende ecclesiastiche non sono esenti da divieti e repressioni) e si colloca a poche settimane dalla conclusione del Concilio Vaticano II e della scelta della Chiesa di essere davvero di tutti ma particolarmente dei più poveri». «Gli
organizzatori dell’incontro sono – continua – don Bruno Nicolini e appunto don Mario, insieme ai religiosi che vivono in quegli anni forme di “fraternità itinerante in roulotte”, condividendo la vita quotidiana dei nomadi, facendosi il più possibile “come loro”, traducendo la Bibbia, unendo catechismo e alfabetizzazione». 
Il 1969 è l’anno in cui don Mario ottiene dal cardinal Colombo di lasciare la parrocchia: «Va bene, posso lasciarti partire. Vediamo cosa combini». Divenne il primo prete che andò a vivere tra i rom e sinti. Parlava di “apostolato dell’amicizia” e scriveva: «Vivo in mezzo alle carovane, ai carri, alle tende, estate e inverno: condivido con i nomadi il loro pasto, che si sono procurati elemosinando. Viaggio con i cavalli malandati e le vetture malandate». Scriveva ancora: «È una missione nel senso più radicale della parola: si vive in situazioni di pre-chiesa. Ho scelto di stare sempre dentro, e non dentro e fuori». E aggiungeva: «Non sono prete per fare lo zingaro, ma per farci compagni nel cammino verso Dio. Se sto veramente dentro, allora si domandano: perché sei qui? Sto qui solo per Dio e per voi»
Interpreta così una stagione della Chiesa postconciliare, per alcuni aspetti parallela a quella dei preti-operai: impara le loro usanze e le lingue dei vari gruppi, perché sostiene: «Se parli con la tua lingua da gagé ti capiscono, ma non ti ascoltano perché non sei dei loro». Ha inventato canzoni religiose, ha tradotto i Salmi e il Vangelo di Marco in cinque differenti lingue. «Anche se nascostamente – diceva – noi ci sentiamo una presenza missionaria. Non solo il missionario porta, ma riceve molto. L’incontro profondo ti mette in crisi, perché non ti senti più l’uomo perfetto che arriva e spiega tutto. Avvicinando popolazioni diverse dalla propria si impara ad essere un po’ più universali, un po’ più “cattolici”», raccontava dopo anni. E poi aggiungeva: «Un pizzico, perché in realtà si rimane sempre troppo concentrati su se stessi». 
Con i decenni cambiano i rom e i sinti, sempre più sedentari, ma la “carovanite” non passa. Don Mario diventa un punto di riferimento per i sacerdoti europei – ma anche dal Brasile al Bangladesh – che si dedicano a questa pastorale. Un grande impegno è per le vocazioni (don Mario conosceva 170 fra preti, suore e diaconi permanenti dei vari gruppi rom, di cui 40 in India) e per la beatificazione (1997) del primo martire rom, Zefirino Jiménez Malla detto El Pelé, ucciso durante la Guerra civile spagnola. Intanto la cura pastorale in tutta Italia continua: la rom harvata Nada Braidic detta Ginò, 51 anni, si stupisce quando le chiedo da che età conosca don Mario. «Da sempre – risponde dalla provincia di Udine – perché veniva a trovare i miei genitori già prima che io nascessi, ogni anno per Pasqua e una volta al mese. Da lui ho ricevuto i Sacramenti, mi ha insegnato a leggere la Bibbia e guidato nelle scelte della mia vita. Si mangiava insieme, ascoltava tanto, non parlava molto ma, quando lo faceva, aveva spessore».
Riboldi scriveva: «Il Signore sa aspettare, sa perdere tempo, rispetta il tempo delle persone, come con i discepoli di Emmaus. Così anche noi, senza l’ansia dei risultati. Se anche uno solo decide di cambiare, si dà a lui tutto il tempo».

Don Marco Frediani è oggi l’incaricato della Pastorale dei rom e sinti per la Diocesi (don Mario lo è stato dal 1971 al 2018). Prova così a indicare le specificità di Riboldi, con cui ha trascorso molti anni: «L’evangelizzazione vissuta incarnandosi all’interno della cultura, che ha necessitato anche di lunghi silenzi per imparare la lingua, facendosi piccolo e riconoscendo negli altri dei maestri». La grande fede – «mi svegliavo di notte e vedevo la luce della cappellina accesa, era lì in preghiera» – lo ha aiutato a guardare sempre con speranza ai rom e sinti.

Di fronte ai problemi – continua don Marco – e a chi gli chiedeva che cosa avesse prodotto la sua missione, rispondeva con il valore della presenza: «L’annuncio del Vangelo non è una questione di numeri. Siamo lì per morire insieme con loro, anche se questo non dà gratificazioni». Ricorda che «citava con autoironia il primo versetto della Genesi, bereshìt (in principio), sminuendosi per il lavoro fatto. Però la sua sillaba centrale, esh, in ebraico vuol dire fuoco: il suo slancio non è stata una fiammata, ma un fuoco che lui ha tenuto acceso per oltre 60 anni. Non si fermava all’apparenza, cercava tracce di santità laddove tutti gettano disprezzo»
La passione negli occhi di don Mario mi fa tornare alla mente un ricordo personale dei miei 19 anni, nel 2005. Eravamo nella sua roulotte, a Brugherio, e mi mostrava il Vangelo tradotto nelle varie lingue romanì, scritto in stampatello per facilitare la lettura. Quando si accorse del mio sguardo rapito, si interruppe e mi disse: «Io ho fatto così, ma tu devi stare nel tuo tempo e nei cambiamenti che vedi e che io fatico a capire, non devi ripetere quello che ho fatto io». «Quindi tu ascoltami – continuava con la grandezza degli umili – e trova i miei errori, parti dall’amore per i rom che incontri e cerca di sognare per il loro futuro. Trova la tua strada per amarli».
La Pupala, che parla di lui come «del mio Mosé perché mi ha portata sulla strada di Dio», si commuove ricordando quando chiedeva a don Mario, che invecchiava, come avrebbe fatto senza di lui: «Mi mettevo a piangere, ma lui mi asciugava le lacrime e diceva: “Questo non lo devi fare, tu vai avanti sulla strada di Dio, devi guardare Gesù, non me”». Oggi nella sua casa mobile si continua a recitare il rosario, molti suoi parenti “fanno la Bibbia” e nella chiesetta-container padre Luigi, l’anziano compagno di Riboldi, e don Massimo Mostioli, che durante la settimana vive qui, continuano a celebrare la liturgia.

 

 

 


[ Stefano Pasta ]