Una minoranza trattata da «emergenza»

Un (piccolo) pezzo di società troppo spesso demonizzato per ignoranza o convenienza politica
Meno di 20mila quelli nelle baracche. E l'aspettativa di vita è 10 anni sotto la media nazionale

Sicurezza e ordine pubblico? O emarginazione ed emergenza abitativa? La questione rom è stata definita spesso come emergenziale, catalogata in base alla convenienza politica. Ma quanti sono i rom? Un censimento su base etnica non è legalmente possibile. Ma l'Associazione 21 luglio almeno dal 2015 conduce una mappatura dei rom in emergenza abitativa, cioè quelli nei campi, piccola minoranza delle tante persone rom in Italia quasi "invisibili" perché pienamente inserite.
Nelle baraccopoli- formali o informali - presenti in molte città italiane dunque i rom e i sinti sono circa 17.800, pari allo 0,03% della popolazione italiana. Di questi, 11.300 vivono nelle aree allestite dai comuni, 109 baraccopoli autorizzate in 63 città di 13 regioni. Altri 6.500 sono nelle baraccopoli informali e nei microinsediamenti. Il 49% ha la cittadinanza italiana, 5.600 persone. Circa 1.100 rom e sinti nelle baraccopoli comunali sono romeni, il 10%. Nei microinsediamenti e negli accampamenti informali invece ci sono quasi solo rom romeni.
L'aspettativa di vita è di 10 anni inferiore a quella della popolazione italiana. Il 55% sono minorenni. La città italiana con più baraccopoli istituzionali è Roma, che ne ha 13 delle 14 del Lazio. Complessivamente i rom e i sinti nei campi autorizzati della Regione sono 2.775. Di questi, il 4% è italiano, il 67% dell'ex-Jugoslavia, il 29% romeno.
Da sottolineare la forte riduzione del numero di rom nelle baraccopoli negli ultimi 5 anni. Se nel 2016 erano 28mila, oggi sono appunto 17.800, il 36,5% in meno. Diverse le cause: il desiderio delle nuove generazioni di percorsi autonomi di fuoriuscita dalle baracche; i percorsi virtuosi di diverse amministrazioni locali per il superamento dei "campi rom"; il ritorno nei Paesi di origine; gli sgomberi forzati che hanno spinto le famiglie all'occupazione di immobili pubblici o privati.
Quella degli sgomberi forzati è stata una politica costante nella città di Roma, indipendentemente dal colore delle giunte. Nel 2020 gli interventi di forza sono comunque calati del 62%, a causa della moratoria nazionale: dai 45 del 2019 ai 17 del 2020. Nel primo semestre del 2021 sono state 5 le azioni di sgombero. La cronistoria dell'intervento delle ruspe vede il picco nel 2015 (sindaco Ignazio Marino, Pd) con 80 azioni, che calano a 28 nel 2016 (commissario straordinario Paolo Tronca) e poi riprendono a salire: 28 nel 2016, 33 nel 2017, 40 nel 2018, 45 nel 2019 (sindaco Virginia Raggi, M5s). Interventi di forza quasi mai accompagnati da percorsi di integrazione abitativa, che non fanno che creare altrove nuovi microinsediamenti.
Un primo segnale politico di una possibile inversione di tendenza è arrivato a Roma con il neo-sindaco Roberto Gualtieri (Pd), unico tra i candidati che nel programma elettorale aveva inserito la questione rom non più al capitolo sicurezza, ma in quello emergenza abitativa. In direzione di una de-etnicizzazione del tema anche l'annuncio della prossima chiusura dell'Ufficio speciale Rom del Campidoglio.
Il sistema dell'accoglienza su base etnica di fatto ha favorito la ghettizzazione, la mancata integrazione, l'abbandono scolastico, la devianza. Il tutto a costi elevatissimi per i contribuenti: l'Associazione 21 luglio nel 2015 calcolava in 8 milioni di euro la cifra spesa nel 2014 dal Campidoglio «per segregare e violare i diritti umani di 242 famiglie», 33mila euro per ogni famiglia rom.
Disastrosi i dati sulla scolarizzazione. I minori residenti nei campi sono calati tra 2017 e 2019 del 27%, cioè da 4.533 a 3.288. Ma la flessione nelle iscrizioni a scuola è crollata: dai 1.990 dell'anno scolastico 2015/16, agli 870 del 2019/20, il 56% in meno. Risultati inversamente proporzionali alla spesa: tra 2002 e 2015 il Campidoglio ha speso per la scolarizzazione dei minori rom (tra i 500 e i 2000) ben 27 milioni di euro. Eppure le famiglie rom sono coscienti dell'importanza della scuola per i loro figli. Secondo una ricerca dell'associazione "Kethane-Rom e sinti per l'Italia" di settembre 2020, il 67% dei genitori crede che la scuola sia importante per le prospettive sociali e lavorative dei figli. Al 64% dei minori rom piace andare a scuola, solo il 32% però si sente accettato in classe.
«Va superato l'approccio etnico», concorda Daniela Pompei, responsabile Immigrazione e integrazione della Comunità di Sant'Egidio 
che da anni è impegnata nei campi. «Sono una minoranza non riconosciuta ufficialmente, perché senza un territorio. Ma in Europa sono un popolo di 12 milioni di persone, che non ha mai fatto la guerra a nessuno, ma durante il nazismo ha pianto mezzo milione di vittime nel Porrajmos, la loro Shoa. Poi le persecuzioni nelle guerre dell'ex-Jugoslavia. Oggi bisogna lavorare per il superamento totale dei campi. Abbiamo aiutato molte famiglie a fare domanda per la casa popolare e l'hanno ottenuta, senza corsie preferenziali. Altri pagano un affitto. E la loro vita cambia radicalmente. Bisogna lavorare sulla scuola e sull'inserimento lavorativo. Soprattutto I giovani hanno voglia di inserirsi e vanno sostenuti». 


[ Luca Liverani ]