«Così si muore sui confini»: i racconti dell’inferno lungo la rotta balcanica

Le voci dei giovani pachistani e afghani aiutati dalla Comunità di Sant’Egidio dopo essere sopravvissuti agli orrori di viaggi lunghi cinquemila chilometri

TRIESTE. Scappano dalle persecuzioni, dalle faide e dalla povertà. Percorrono 5 mila chilometri a piedi (c’è chi ci ha messo addirittura 13 anni), e attraversano Paesi in cui la polizia li picchia e li deruba, e dove i trafficanti di uomini vogliono soldi. Sono “quelli della rotta balcanica”, ragazzi che provengono dal cuore dell’estremità più ad est del Medio Oriente, Paesi come Pachistan e Afghanistan. Li incontriamo alla Comunità di Sant’Egidio di Trieste, dove danno una mano come possono per aiutare chi arriva e non sa bene dove andare.
Alì viene da un piccolo villaggio del Pachistan. Secondo i documenti del suo Paese è nato nel 1992, ed è arrivato a Trieste cinque anni fa. «Sono andato via - racconta - perché mia madre mi ha detto di cercare un futuro migliore visto che da sciita (una corrente della religione islamica, ndr) nel mio Paese non ero al sicuro. Mio padre è morto 18 anni fa. Ho un fratello grande e uno più piccolo, che spero un giorno possa venire in Italia, ma non attraverso la rotta balcanica. Nel mio Paese lavoravo in una fabbrica di mattoni. Oggi però lì non ho più nulla perché pochi mesi fa mia madre è morta - e qua gli occhi di Alì si riempiono di lacrime - e non ho potuto neanche salutarla».
Hanno tutti un nome, un cognome e un villaggio da cui sono partiti, non sempre però vogliono raccontare i dettagli perché i familiari rischiano ritorsioni pesanti. Khodadad ha affrontato un viaggio lungo 13 anni, per lui non si trattava solo di cercare un futuro migliore, ma letteralmente di sopravvivere: «Sono di religione hazara (un ramo della corrente sciita, ndr) e i nostri villaggi vengono distrutti dai talebani e dati alle fiamme». Aziz viene dall’Afghanistan e pure lui è stato costretto a partire per sopravvivere ad una guerra iniziata nel 2001, che sembra non finire mai nelle zone più povere del paese.

La scelta

In Pachistan ci sono intere aree in mano ai talebani che, contrariamente a quanto si pensa, non sono stati sconfitti e terrorizzano gli abitanti con saccheggi e persecuzioni. Zone poverissime, dove una casa vale 5 mila euro e la vita umana forse anche di meno. Ma dove, magari, c’è la connessione internet in casa e circolano pure vecchi telefonini, che arrivano dalla Cina o da qualche partita di scarto proveniente dall’Europa. Quello che manca, invece, è la possibilità di vivere in pace. Basta pensare che qualcuno, raccontano i ragazzi, è costretto a scappare perché perseguitato da un’altra famiglia. Magari per una faida scoppiata per futili motivi, per esempio un banale incidente d’auto. «Del resto se lì ci fosse stata la pace - aggiungono - cosa ci faremmo adesso in Italia?».

L’Iran
Le testimonianze diventano a questo punto ancora più drammatici. «Ho visto una bambina di un anno morta per il troppo freddo, non me lo hanno raccontato, l’ho vista con i miei occhi. Ho sentito la madre che urlava e là ho pensato di tornare indietro. Mi sono detto che forse era inutile proseguire». È stato lì, al confine tra Turchia e Iran, che Alì ha capito quanto sarebbe stato duro il viaggio non sarebbe stato facile. Quella frontiera è infatti la più pericoloso anche perché i trafficanti di esseri umani - «che ci sono sempre, perché se non paghi non ce la puoi fare» - sparano a chi è più debole e rallenta il gruppo.
«Molti dicono che siamo solo uomini, in realtà ci sono anche donne e bambini, ma in pochi riescono a farcela. Le femmine poi vengono prese e vendute», raccontano. «Io ho passato quel confine insieme ad altre 200 persone: non dimenticherà mai le urla. Ho visto anche un uomo a cui hanno sparato perché non riusciva a camminare», aggiunge Alì.
«Quando siamo partiti non sapevamo in quale Paese andare anche perché non tutti abbiamo studiato. Sapevamo solo di dover partire per migliorare la nostra vita, senza chiedere niente a nessuno». L’approccio con le terre ai confini dell’Europa, però, è quantomai traumatico.
«Appena abbiamo messo piede in Turchia - raccontano i giovani in una stanza della Comunità di Sant’Egidio in via di Romagna - siamo stati presi dai trafficanti locali, che ci hanno chiuso in una casa e ci hanno chiesto dei soldi». All’inizio Alì non credeva che quelle persone facessero sul serio. «Poi una sera mi hanno detto che se non avessi pagato mi avrebbero strappato gli organi dal corpo, allora ho chiesto a mia madre dei soldi. Lei ha venduto la casa, ma loro non mi hanno comunque lasciato andare. Sono scappato dal tetto della baracca». La polizia, spiegano, spesso preferisce far finta di niente o portare i migranti intercettati nei campi: «Veri e propri lager dove siamo stati schedati. I più fortunati stanno là un mese, dopo ti danno un permesso per girare in Turchia».

La Grecia
La prima tappa in Europa è la Grecia, arrivarci però richiede l’aiuto dei trafficanti. «Abbiamo pagato e ci hanno messo su un gommone a remi». Qualcuno non ce l’ha fatta ed è finito in mare. «Sulla mia barca c’era un uomo, ad un certo punto ci siamo sbilanciati ed è caduto in mare. Non l’ho più rivisto», ricorda Alì.
Oltre quel mare c’è la Grecia. E pure qui il copione si ripete. Come in Turchia la polizia si limita a trasferire i migranti, stremati dalle durissime condizioni di viaggio, nel solito centro di accoglienza. E da lì, dopo gli interrogatori dei funzionari dell’Ue e dell’Unhcr, arriva un altro permesso che consente di girare per il Paese. Qui, racconta qualcuno dei ragazzi, il clima era migliore e c’era pure la possibilità di fare qualche lavoretto, magari come imbianchino o addetto alla raccolta di frutta e verdura. E il compenso? «Ci pagavano ogni tanto, uno o due euro». Paghe da fame, quindi, a cui si aggiungevano poi spesso i raid messi a segno dai militanti neonazisti. Abbastanza, insomma, per decidere di non rimanere e proseguire verso nord.

I Balcani
Anche il confine tra Grecia e Macedonia si rivela impresa non semplice. Qualcuno ci ha provato anche quattro volte «nonostante le botte della polizia che quando ti prende ti rispedisce indietro». Alì dopo aver passato il confine è arrivato in Serbia e per un anno, ha vissuto nella “jungle” (giungla), insieme a tanti altri come lui. I più sfortunati finiscono nei campi di accoglienza al freddo e senza nessun servizio. Oggi la situazione è grave: si parla di migliaia di profughi pronti a partire con l’arrivo del caldo visto che nella “jungle” in inverno c’è troppa neve.

L’Europa
Dalla Serbia qualcuno ha provato a passare per l’Ungheria dove i migranti, prima della costruzione del muro, venivano rinchiusi in centri di detenzione con camere piccolissime. «Un ragazzo, credo africano, ad un certo punto si è impiccato perché non ne poteva più», racconta Alì. A confronto le struttue di accoglienza in Austria o in Germania sembrano un sogno. «Là ti accolgono, ti ripuliscono e ti danno da mangiare in spazi decisamente migliori, dove però c’è tanta gente. La fila per mangiare la iniziavi al mattino e la finivi dopo pranzo».
Molti proseguono poi per la Francia o l’Inghilterra, dove hanno parenti. E trovano, lungo il viaggio, anche nuovi compagni di viaggio: giovani e non partiti dal Magreb (Algeria, Marocco, Tunisia) visto che la rotta mediterranea è sempre più difficile. Grazie ai pochi soldi che hanno comprano un biglietto aereo fino alla Turchia e risalgono i Balcani a piedi. E non vogliono fermarsi in Italia. Alì, invece, in Italia ci è romasto. Ormai è triestino anche se non sono mancati i momenti difficili: «Quando finisce l’accoglienza, e per molti finirà tra due settimane per effetto del decreto Salvini, veniamo lasciati in strada. Io sono stato fortunato e ora lavoro. Altri però perdono tutto e quando non hai niente può succedere di finire in brutti giri, anche in quelli dello spaccio di droga. E chi lo fa, danneggia tutti noi perché molti italiani poi pensano che tutti i migranti spacciano». Molti italiani, facciamo notare, pensano anche che i rifugiati non se la passino poi cos’ male visto che hanno tutti un telefonino. «Ma mica ce l’hanno regalato - spiegano -. Lo abbiamo pagato 100 euro e i soldi li abbiamo ottenuti lavorando».

L’accoglienza
Di storie come quelle di Alì e Khodadad a Sant’Egidio ne sentono in continuazione. «Oggi sono venute due donne irachene con quattro figli - racconta un volontario - e ci hanno chiesto aiuto. Noi però come Comunità non abbiamo delle strutture, ci limitiamo a dare un mano con qualche vestito e con qualche bene di prima necessità». Lo stesso tipo di aiuto garantito, anche attraverso la Fondazione CRTrieste, a tanti triestini. «Sì perché non c’è differenza: italiane o straniere, sono tutte persone che hanno bisogno di aiuto».
 


[ Andrea Pierini ]