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"Non è buono che l'uomo sia solo". L'omelia del Cardinale Baldassare Reina, Vicario Generale di Sua Santità alla celebrazione del 57mo anniversario di Sant'Egidio

 

Basilica di San Paolo fuori le Mura
Liturgia in occasione del 57mo anniversario della Comunità
Genesi 2,18-25
Sal 127
Marco 7, 24-30

Omelia del card. Baldo Reina

Saluto cordialmente il fondatore della Comunità di Sant’Egidio, l’amico Andrea Riccardi, il presidente da poco rieletto, Marco Impagliazzo. I fratelli Cardinali e Vescovi, le gentili autorità, gli ambasciatori. I tanti sacerdoti e diaconi qui presenti. Le altre autorità politiche e militari e religiose. Saluto con grande affetto tutti voi.
È davvero commovente vedere questa assemblea così nutrita, che partecipa in maniera raccolta a un momento importante per la vostra Comunità, il 57simo anniversario dalla fondazione.

A tutti voi porto il saluto e l’abbraccio del Santo Padre. Gli ho detto di questa celebrazione eucaristica, mi ha chiesto di portarvi la sua paterna benedizione. Vi accompagna, vi sostiene, vi incoraggia nel cammino che ogni giorno portate avanti non solo nella Chiesa di Roma, ma attraverso la Chiesa di Roma in tutto il mondo. Mi lascio illuminare dalle parole che abbiamo ascoltato, dalla Parola di Dio che abbiamo ascoltato in questa celebrazione eucaristica. Perché, come sempre, la Parola di Dio è illuminante, è provvidenziale, è puntuale. È la Parola che illumina i nostri eventi, le nostre giornate. Abbiamo sentito, abbiamo ascoltato due pagine davvero molto importanti per la nostra fede, utili anche per ribadire il motivo del nostro ritrovarci qui.

Nella prima lettura, il racconto della Genesi è, potremmo dire, la creazione della prima famiglia o, se vogliamo, della famiglia umana. Viene creato l’uomo, e Dio dice: Non è bene che l’uomo sia solo, gli voglio fare un aiuto che gli sia simile. È il racconto della creazione della donna: finalmente questa è carne della mia carne, ossa delle mie ossa. La si chiamerà donna, perché dall’uomo è stata tratta. Riconosciamo in questa pagina le nostre origini, il nostro essere famiglia, non solo da un punto di vista naturale, la famiglia a cui ognuno di noi appartiene, ma potremmo dire la grande famiglia umana. Questa profonda comunione tra l’uomo e la donna, tra coloro che compongono la famiglia umana sparsa in tutto il mondo. E quanto è importante sentirsi una sola famiglia. Questa espressione che troviamo all’inizio della prima lettura è davvero profetica per il nostro tempo: Non è bene che l’uomo sia solo. Oggi un po' tutti sperimentiamo una solitudine che è fonte di angoscia, una solitudine che uccide, una solitudine che ha mille volti, che vanno dalla tristezza, alla sofferenza, all’isolamento, all’indifferenza.
Non è bene che l’uomo sia solo. Non è bene lasciare l’uomo solo. Non è bene lasciare nessuno indietro. In questa pagina ritroviamo non solo la bellezza della famiglia, ma troviamo la forza dell’essere famiglia, la forza delle relazioni. Anche questa è una parola profetica in un tempo in cui le relazioni, tutte le relazioni, sembrano sfilacciarsi, da quelle sociali, a quelle culturali, a quelle politiche, quelle religiose. Le relazioni si indeboliscono e perdiamo di vista il fatto che se siamo è perché siamo in relazione con qualcuno, al di là della fede, al di là della sensibilità religiosa, ma le nostre relazioni ci alimentano, alimentano la nostra vita. Non siamo se non viviamo relazioni autentiche.

Non è bene che l’uomo sia solo. E rileggo in questa espressione l’impegno, il cammino, lo sforzo, la profezia della Comunità di Sant’Egidio, che ha creduto fortemente, e crede, nelle relazioni. Che vive nel promuovere queste relazioni, a tutti i livelli. E diventano relazioni di pace laddove ci sono i conflitti, purtroppo ancora oggi assai presenti e sanguinanti. Diventano relazioni diplomatiche, diventano relazioni tra le diverse fedi, tra le diverse sensibilità, tra le diverse religioni.

Siamo all’indomani della celebrazione del Concilio Vaticano II quando la Comunità di Sant’Egidio inizia a muovere i primi passi. Un tempo assai travagliato, una rivoluzione al tempo stesso culturale, religiosa e politica, e si intravede nelle relazioni uno dei tempi portanti. Ed è una parola quanto mai attuale. Abbiamo bisogno ancora di far riecheggiare questa parola che abbiamo ascoltato questa sera: Non è bene che l’uomo sia solo. Ce lo diciamo in un contesto eucaristico, mentre facciamo esperienza della comunione tra di noi e della comunione con il Signore, e non possiamo accettare che l’uomo sia solo. Non possiamo accettare che nessuna persona rimanga isolata o schiacciata dalla povertà o dalla sofferenza o dalla malattia o da qualsiasi altra forma di disagio. Non è bene che l’uomo sia solo.
E quanto sarebbe bello poter esclamare anche noi questa sera, come esclama Adamo di fronte a Eva: finalmente questa è carne della mia carne. Sentire nostra la carne di tutta l’umanità, sentire nostra la fatica e la gioia di ogni essere che è sulla faccia della terra. Poter dire: questa è carne della mia carne. Non lo dice soltanto il marito alla moglie, l’uomo alla donna, ma lo dice ogni persona ritrovandosi davanti una creatura che gli è simile. Ed è il comandamento simile al primo: ama il prossimo tuo perché è come te stesso, perché è te stesso. Non è bene che l’uomo sia solo. Finalmente questa è carne della mia carne.

Nella Seconda Lettura ritorna ancora questa dimensione della famiglia umana: una donna siro-fenicia, straniera, di lingua greca, ha un problema, la figlia è posseduta da un demonio, potremmo dire noi oggi è un’indemoniata. Esce da se stessa, dalle proprie convinzioni culturali e religiose e si avvicina a Gesù. Lo fa con grande coraggio, chiede a Gesù il miracolo: Fa’ che questa mia figlia sia liberata dal demonio. E Gesù ha una risposta che ci spiazza. Sembra quasi dire: prima i giudei, prima il popolo eletto. Non è bene prendere il pane dalla tavola e darlo ai cagnolini. Parola elegante, per non dire “cane” a coloro che non erano ebrei. E la donna lì dimostra un coraggio, una forza, davvero disarmanti. Non si scoraggia, non fa un passo indietro: "sì, va bene, però anche i cagnolini hanno diritto ad avere le molliche che cadono dalla tavola dei padroni". Rimane sotto la tavola. Qui viene messa in risalto la fede di questa donna, una fede coraggiosa, una fede forte, una fede autentica, che non ragiona con la logica dei meriti, dei primi o degli ultimi o dei secondi, e non si lascia nemmeno schiacciare dalla risposta del Maestro. Una fede che sa aspettare, una fede paziente.
Il Santo Padre rivolgendosi a voi, qualche anno fa, ha parlato delle tre P: la preghiera, i poveri e la pace. Questa sera, alla luce della donna siro-fenicia, mi verrebbe da aggiungere una quarta P, mi sembra molto necessaria di questi tempi: la pazienza. La pazienza della fede, la pazienza del dialogo, la pazienza di saper aspettare i tempi dell’altro, che non sempre coincidono con i nostri. La pazienza per costruire sentieri di dignità e di pace. E mi sento di dire: quanta pazienza ha avuto la Comunità di Sant’Egidio!
Quanta pazienza serve oggi nel mondo, nella Chiesa, nell’impegno politico, lo dico davvero ringraziando le autorità qui presenti. Questa pazienza che mi porta a scommettere sulla dignità dell’altro, piuttosto che sulle mie convinzioni. Questa pazienza che inizia a costruire degli orizzonti che ancora non si vedono.
Siamo nell’anno del Giubileo della Speranza. Diceva don Tonino Bello: la speranza va organizzata. Ci vuole pazienza nel saper organizzare la speranza. Perché servono sì delle decisioni ferme, delle risposte puntuali, ma serve anche la pazienza di saper costruire futuro. Questo è un tempo che ha bisogno di persone, di uomini e donne che costruiscono futuro. Quella donna ha saputo aspettare. Avrebbe potuto dire a se stessa: non ce la faccio, anche il Messia, anche il Signore mi ha girato le spalle, me ne vado. Ha saputo aspettare con pazienza, sotto la tavola. Ed è stata premiata: Per questa tua parola la tua figlioletta è guarita. Ed è, la parola di questa donna, una parola di fede e di pazienza, una parola coraggiosa, una parola umile, una parola forte.
E vedo ancora una volta, in questa testimonianza di fede della donna siro-fenicia, un altro tratto della Comunità di Sant’Egidio. Quello, appunto, della fede che si fa pazienza, che si fa passione per quei valori che il Signore ci ha lasciato nel Vangelo, nei suoi insegnamenti. Abbiamo bisogno di questa passione, fratelli e sorelle,una passione che sa disegnare strade nuove in un tempo difficile, complesso, estremamente impegnati tutti in questa complessità e dentro questa complessità che rischia di farci confondere. Abbiamo bisogno di questa pazienza, saper ascoltare, saper attendere, saper pregare, e nel frattempo qualcosa accade.

Esattamente come questi 57 anni. Quante cose sono avvenute, quante tappe di bene sono state raggiunte, ma non perché qualcuno l’ha voluto e subito, immediatamente, è accaduta quella cosa. Ma perché si sono gettati dei semi, che lentamente sono cresciuti e sono diventati quest’albero grande che oggi è qui, davanti ai nostri occhi, che ha rami in tutto il mondo, che arriva in tutto il mondo, a partire dalla Chiesa di Roma.

Uscì il seminatore a seminare. È la parabola che racconta Gesù nel Vangelo di Marco per parlare del Regno di Dio. Uscì il seminatore a seminare. Abbiamo bisogno di questi semi di fede e di speranza, che vengono ancora seminati nel terreno difficile della storia di questo tempo. Queste due parole mi sembrano puntuali per accompagnare questo 57simo anniversario della fondazione della Comunità di Sant’Egidio. Come sempre quando celebriamo un anniversario volgiamo lo sguardo indietro, e diciamo: grazie, Signore, per tutto che hai permesso in questo tempo, assai significativo. Grazie per il bene realizzato, per i ponti che si sono pian pianino costruiti. Grazie per i semi di speranza che sono stati gettati negli anni.
Ma l’anniversario nella logica cristiana è sempre l’occasione per guardare avanti. Perché la nostra non è una fede del passato, ma semmai una esperienza che getta lo sguardo sul futuro. Allora vogliamo chiedere al Signore, in questa celebrazione eucaristica, che continui ad accompagnare i passi della Comunità di Sant’Egidio, che continui a benedire questa Comunità così come ha fatto in questi 57 anni.

A tutti voi la gratitudine della nostra Chiesa, della Chiesa di Roma e, attraverso le mie parole, la gratitudine del Santo Padre. Ed è una gratitudine che vi responsabilizza, che vi chiede un impegno ancora maggiore. Una gratitudine che irrobustisce i vostri desideri di bene, tanti progetti che avete già messo in campo e che ancora attendono di realizzarsi. Impegno nel costruire dialoghi di pace con tutti, perché la pace regni nel mondo, perché l’unità sia trovata da tutti coloro che abbracciano la fede in Dio Padre.
Che davvero San Paolo apostolo, qui custodito, in questa basilica, davvero possa accompagnare i nostri passi. Possa proteggere il nostro cammino, e in modo particolare il cammino della Comunità di Sant’Egidio.
Al Padre che è nei cieli la lode, la gloria, oggi e per tutti i secoli dei secoli. Amen.

 

Trascrizione a cura della redazione