Amare la vita, tutta e per tutti. Le parole del card. Matteo Zuppi nella preghiera per i migranti "Morire di speranza"

 

 

A Bologna il cardinale Matteo Zuppi ha presieduto la veglia di preghiera "Morire di Speranza", celebrata nella Basilica SS. Bartolomeo e Gaetano il 21 giugno, all'indomani della Giornata mondiale del rifugiato.

Omelia del card. Matteo Zuppi

Si può accettare che si muoia di speranza o dobbiamo scegliere di difendere la vita perché non diventi mai disperazione? Fare memoria di chi è morto cercando il futuro significa ricordare la tragedia dei viaggi via terra, segnati dalla paura, dai muri, dalle porte chiuse che difficilmente di aprono. Fare memoria di chi muore significa ricordare cosa significa perdersi in mezzo al mare, enorme, imprevedibile, spaventoso per il niente della persona umana e di quelle imbarcazioni. Bisogna trovarsi lì per capirlo e per capirlo dobbiamo pensarci lì. Molte vittime sono state inghiottite nel nulla e di loro non si è mai saputo più nulla. L’immagine recente di quei poveri corpi di bambini e ragazzi restituiti alla terra e deposti sulla sabbia della riva, come una sindone dell’uomo, ci fanno vedere i tanti dei quali non si è più saputo nulla. Ecco perché siamo qui oggi, perché quei volti hanno tutti il corpo di Gesù.
La nostra vita è tutta una navigazione, perché deve raggiungere l’altra riva, sospesa com’è tra l’una e l’altra. È questa la condizione dell’uomo, che deve sempre affrontare il tempestoso mare della vita, perché si illude se pensa di restare sempre dove è, possedere definitivamente quello che si ha. Ci misuriamo tutti con la forza del mare e comprendiamo che tutti possiamo perderci nell’immensità, perché la vita è come descrive il Libro della Sapienza 5, 10: “Come una nave che solca un mare agitato, e, una volta passata, di essa non si trova più traccia né scia della sua carena sulle onde”. Nella pandemia ci siamo scoperti tutti vulnerabili. Ci ha travolto senza nessun rispetto per le nostre sicurezze e precauzioni. Questa consapevolezza deve spingerci a unirci, ad essere solidali per davvero perché “Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, proprio quella descritta dal vangelo, accompagnati da Gesù che non resta lontano, spettatore delle nostre traversie umane”. Gesù è presente e affronta fisicamente i rischi del finimondo, quando il mare inghiotte tutto, l’acqua arriva alla gola, il freddo paralizza, si è trascinati da una forza enormemente più grande. Sì, nella pandemia, grande analogia della vita e della sua fragilità, abbiamo compreso che siamo chiamati “a remare insieme, tutti bisognosi di confortarci a vicenda. Ci siamo accorti che non possiamo andare avanti ciascuno per conto suo, ma solo insieme”. Ce ne siamo accorti? Abbiamo saputo trarre da questa consapevolezza la determinazione per scegliere di guarire sul serio un mondo così ammalato? In realtà la vita di tutti i giorni ci porta purtroppo a pensarci sicuri proprio perché possiamo fare a meno degli altri. La pandemia non è una parentesi da richiudere perché è la storia che ci investe con i suoi problemi e finalmente ci confrontiamo con le tante pandemie che pensavamo non ci riguardassero. Abbiamo visto come facilmente ognuno può facilmente ritrovarsi nella condizione dei sommersi e non si è per sempre dalla parte dei salvati perché se il mondo è inospitale verso qualcuno lo diventa inevitabilmente verso tutti. Nell’indifferenza nessuno può dirsi protetto. Per questo rivestiamo di interesse ogni persona, iniziando da chi sta per perdere la vita. Questa considerazione è molto spirituale e molto materiale, è evangelica ed umana, essenza della verità di Colui che è la vita e che ci insegna ad amarla tutta, dal suo inizio fino alla fine. Tutta e per tutti. Quando la Chiesa parla di questi suoi figli non fa politica anzi ricorda, da madre qual è di tutti, alla politica a cercare le risposte di amore possibile. La Chiesa non potrà mai accettare che la politica inquini questa sua predilezione e non potrà limitare gli imperativi evangelici che sono per lei indiscutibili perché si tratta di amare il corpo stesso di Gesù. Altrimenti finiremmo per ascoltare la politica e non la voce di Gesù, che ci ricorda che dobbiamo amare il nostro prossimo, cioè uno sconosciuto che rendiamo prossimo con il suo e nostro amore.
Essere nella stessa barca richiede di cercare risposte concrete, come ad esempio i corridoi umanitari per disincentivare i viaggi sui barconi e favorire l'integrazione. Occorre rimuovere le cause, garantendo il diritto di non partire con gli aiuti di cooperazione. È necessario indicare flussi d'ingresso regolari nei settori corrispondenti alla domanda del mercato. Non dobbiamo discutere finalmente una seria distribuzione europea, davvero equa e la rivisitazione di regole non più sostenibili? Non vogliamo accettare che le persone diventino numeri, statistiche. Pronunciare il nome di chi ha perduto la vita nei viaggi della speranza è la prima ribellione all’indifferenza e di affermare che siamo fratelli e tutti e che essi sono i nostri fratelli più piccoli. Pensiamo: cosa avevano nel cuore quando il mare li ha travolti o si sono sentiti perduti nell’immensità del cammino senza riferimenti? Che paura attanagliava il loro povero cuore? Ecco così viene la bonaccia: nella preghiera a Dio che non ne perde nessuno e che ci insegna ad amarli, perché sono il nostro prossimo. Non è un sogno: è una scelta perché la terra non diventi un incubo e torni ad essere quel giardino che Dio ci ha affidato.