Il coraggio di fare la pace

Il coraggio di fare la pace

Seminare Idee. A Prato a giugno un nuovo evento di condivisione culturale. Tra gli ospiti il fondatore della Comunità di Sant'Egidio Andrea Riccardi: sostituiamo le parole belliciste con dialogo e pazienza
Sul riarmo. L'Unione europea dovrebbe dotarsi di una difesa comune, ma non i singoli Paesi

Intanto una dichiarazione di fondo. «Partecipo molto volentieri e con gioia a festival come questo di Prato. Trovo che siano laboratori di un'Italia pensante che si sforzano di ricucire il divario che da anni si è creato tra cultura e politica. Quest'ultima è ormai da tempo sempre più intrecciata ai media, ai social alle emozioni, a fronte dell'impoverimento culturale del nostro Paese».
Andrea Riccardi, fondatore della Comunità Sant.'`Egidio, chiuderà con un suo intervento la tre giorni del Festival «Seminare Idee» in programma a Prato dal 6 all`8 giugno, per la curatela di Annalisa Fattori e Paola Nobile (è sostenuto da Comune e Fondazione Cassa di Risparmio di Prato) e dedicato alla parola Coraggio. «Una parola certamente da recuperare», secondo Riccardi che la declinerà in un ragionamento che porterà argomenti a favore delle ragioni della pace.
Lei parlerà di coraggio e di pace...

«Sì, esatto e lo farò all'interno di un festival che ha un titolo importante. Seminare idee. Mi riporta alla mente una poesia che Papa Wojtyla scrisse quando viveva ancora nel grigiore della Polonia comunista e in cui asseriva: "Il mondo soffre per mancanza di visione". La cosa vale ancora di più oggi, di fronte a una povertà di idee e visioni. Del resto ci troviamo davanti a una politica internazionale che sembra procedere senza logica. Ecco perché è importante seminare idee».
Lei dice che è senza logica? A leggere i fatti sembra che una logica ce l'abbia e che sia quella di far crescere l'economia delle armi. Si parla di riarmo ovunque, si cerca di affrontare la guerra dei dazi rassicurando gli Usa con la promessa di comprare armamenti da loro...
«È vero, ed è per questa ragione che io parlerò di coraggio della pace, della diplomazia, del dialogo. Lei mi parla di armi, allora le dico cosa penso a questo proposito. Io credo che l'Unione Europea debba dotarsi di un suo strumento di difesa, ma non credo nei riarmi nazionali. Lo trovo estremamente pericoloso in alcuni casi. Ho in mente il riarmo della Germania, in un momento in cui il partito neonazista ha raggiunto nei sondaggi la Cdu, e ne ho paura. Ricordo negli anni passati dei miei dialoghi fatti con Helmut Kohl e con Angela Merkel che, entrambi certamente patrioti, mi parlavano dei demoni nascosti nel cuore della Germania e lo dico senza diffidenza preconcetta nei confronti dei tedeschi».
E il nostro eventuale riarmo quello italiano, non la spaventa?
«No, non troppo, in questo momento sono concentrato sul riarmo tedesco...»
Stiamo parlando di armi, ha visto? E la pace?
«La pace oggi non è più neanche un ideale. Nel dopoguerra lo è stato e, anche se lo abbiamo tradito quest'ideale, per più di mezzo secolo è stato pur sempre un obiettivo condiviso. Oggi, chi parla di pace, viene visto come un utopista, un traditore, un irresponsabile. Ma noi sappiamo bene, per averlo sperimentato, che la guerra è un'avventura senza ritorno».
Come siamo arrivati a questo punto?
«Dopo l'89, con lo sviluppo della globalizzazione, abbiamo coltivato il mito del libero mercato come motore di democrazia e pace: quasi un'universale provvidenza. Ma oggi la democrazia è scarsamente diffusa. E con essa anche la tensione ideale verso la pace».
Come cambiare rotta?
«Sostituendo le parole belliciste con altre parole: diplomazia, dialogo, pazienza. Chi ha immaginato la pace di fronte alla guerra che sta devastando l'Ucraina fino a oggi? Chi ha avuto il coraggio di usare la pazienza del dialogo per fermarla?».
Pazienza è una gran bella parola. La si può applicare anche alla guerra in Medio Oriente? A quello che sta accadendo in Palestina?
«Non lo so. Quello che ho trovato molto interessante in questi giorni è stato assistere alle manifestazioni dei palestinesi contro Hamas. La realtà è che ne sono ostaggio».
Dunque, bisogna dialogare con loro?
«Per ora è fantapolitica e non mi addentrerei in questo ragionamento. Non hanno neanche una loro rappresentanza. Però occorre una comprensione articolata della realtà palestinese. E poi bisogna liberare subito i prigionieri israeliani e ci vuole una tregua».
In che modo favorire queste scelte e dare fiato alla costruzione della pace?
«Bisogna dire storie di coraggio, raccontandole, anche come sta facendo questo festival, e tenendo a mente che fuori dal nostro mondo, in Asia, in Africa, in America Latina, dove io sono stato sovente, c'è un immenso problema: i giovani. Qui da noi lo si avverte di meno, per via del decremento demografico, ma in quei Paesi, in questo momento mi viene in mente Timor Est, più della metà sono giovani e sono giovani senza prospettiva. E' una generazione bruciata che soffre sino al gesto estremo del suicidio come accade sempre più spesso anche in Africa. A loro dobbiamo risposte ridando cittadinanza alla speranza e alle idee, parlando alla mente e al cuore della gente».
 


[ Chiara Dino ]