L'intervento
Mille giorni. Tanti ne sono passati dall'inizio dell'aggressione russa dell'Ucraina, il 24 febbraio 2024. Che cosa significano mille giorni di guerra? Mille giorni di bombardamenti, di distruzioni, di paura, di fughe, di notti in bianco, senza luce, senza gas e riscaldamento, mille giorni di famiglie separate, le donne e i bambini da una parte, gli uomini dall'altra, i nonni spesso rimasti soli in città e villaggi svuotati.
Bisogna tornare alle sofferenze della popolazione civile, a ciò che la guerra significa in termini umani per la vita di milioni di persone sfinite, che guardano con angoscia all'inizio di un nuovo inverno. Ci vuole uno sforzo per provare solo che a immaginare cosa significano mille giorni di guerra.
Bisogna tornare alle sofferenze della popolazione civile, a ciò che la guerra significa in termini umani per la vita di milioni di persone sfinite, che guardano con angoscia all'inizio di un nuovo inverno. Ci vuole uno sforzo per provare solo che a immaginare cosa significano mille giorni di guerra.
Mentre sui giornali e sui media grande spazio è dato alla descrizione di armi sempre più micidiali, agli avanzamenti e agli arretramenti degli eserciti, a congetture di ordine geopolitico, sta sparendo dal discorso pubblico la realtà quotidiana vissuta dai civili, come pure dalle migliaia di soldati mandati a morire. Durante la prima guerra mondiale, un cappellano militare dell'esercito russo, Spiridon (Kisljakov), che dopo il conflitto, proprio a Kiev, avrebbe fondato una comunità, la «fraternità del dolcissimo Gesù», scriveva: «La guerra è il colmo di ogni orrore, che essa è il più orribile processo di detonazione e di nuova accumulazione di ogni male nella nostra vita sociale».
Al di là della retorica dell'eroismo e della vittoria, aveva visto con i propri occhi la cruda realtà della guerra: i soldati impazziti, la morte di migliaia di giovani, la miseria e le malattie. Personalità spirituale originale, Spiridon non poteva accettare la guerra, né le giustificazioni che ne erano date e tantomeno la sua santificazione da parte di politici e uomini di chiesa. Aveva capito che la guerra è un veleno che inocula la violenza nella società e che prepara nuove detonazioni. La guerra era per lui «il più grande male del mondo» e si sdegnava per il fatto che tutti parlassero di guerra e nessuno parlasse di pace.
La sua testimonianza riacquista oggi una rinnovata attualità, in un tempo in cui si sdogana la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti e nessuno più parla di pace, se non papa Francesco, come una voce che grida nel deserto.
Ha un grande valore, allora, ricordare questi mille giorni perché ci aiuta a non abituarci alla guerra, a non rassegnarci, a non considerarla normale. Cosa possiamo fare noi? Cosa posso fare io? Lo sentiamo spesso ripetere attorno a noi ma anche dentro di noi. Non essere indifferenti è il primo modo per non essere irrilevanti. Non dimenticare. Vivere la solidarietà con le vittime. Non accumulare il veleno della violenza nella nostra società perché è dal male piccolo e banale che nasce il male grande.
E poi, oltre allo sforzo di immaginare la guerra c'è quello, altrettanto faticoso, di immaginare la pace. Che non può essere una ricetta semplice in una situazione complessa qual è quella ucraina, ma che può e deve essere la strada da percorrere perché la guerra non diventi eterna.
L'autrice è professoressa associata di Storia contemporanea presso l'Università Roma Tre e membro della comunità di Sant'Egidio
Al di là della retorica dell'eroismo e della vittoria, aveva visto con i propri occhi la cruda realtà della guerra: i soldati impazziti, la morte di migliaia di giovani, la miseria e le malattie. Personalità spirituale originale, Spiridon non poteva accettare la guerra, né le giustificazioni che ne erano date e tantomeno la sua santificazione da parte di politici e uomini di chiesa. Aveva capito che la guerra è un veleno che inocula la violenza nella società e che prepara nuove detonazioni. La guerra era per lui «il più grande male del mondo» e si sdegnava per il fatto che tutti parlassero di guerra e nessuno parlasse di pace.
La sua testimonianza riacquista oggi una rinnovata attualità, in un tempo in cui si sdogana la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti e nessuno più parla di pace, se non papa Francesco, come una voce che grida nel deserto.
Ha un grande valore, allora, ricordare questi mille giorni perché ci aiuta a non abituarci alla guerra, a non rassegnarci, a non considerarla normale. Cosa possiamo fare noi? Cosa posso fare io? Lo sentiamo spesso ripetere attorno a noi ma anche dentro di noi. Non essere indifferenti è il primo modo per non essere irrilevanti. Non dimenticare. Vivere la solidarietà con le vittime. Non accumulare il veleno della violenza nella nostra società perché è dal male piccolo e banale che nasce il male grande.
E poi, oltre allo sforzo di immaginare la guerra c'è quello, altrettanto faticoso, di immaginare la pace. Che non può essere una ricetta semplice in una situazione complessa qual è quella ucraina, ma che può e deve essere la strada da percorrere perché la guerra non diventi eterna.
L'autrice è professoressa associata di Storia contemporanea presso l'Università Roma Tre e membro della comunità di Sant'Egidio
[ Simona Merlo ]