Per nuovi spazi di cooperazione sanitaria in Africa

Curati 2.200 malati di epilessia grazie all'accordo tra Fondazione Besta e Programma Dream
Costruire un "ponte" sanitario tra Italia e Africa grazie allo sforzo di chi quotidianamente mette a disposizione le proprie competenze per formare medici e operatori sul posto. È il cuore dell'accordo tra Istituto Neurologico Carlo Besta e programma Dream (Disease Relief through Excellent and Advanced Means) della Comunità di Sant'Egidio, teso a creare accesso alle cure neurologiche in luoghi dove non vi sono specialisti.
La popolazione dell'Africa sub-sahariana è raddoppiata negli ultimi 20 anni, arrivando a quasi 1,3 miliardi di abitanti, e così sono raddoppiate anche le malattie. È aumentata, inoltre, l'aspettativa di vita per cui oggi in Africa si vedono malattie che prima non c'erano. «L'Hiv è una malattia cronica, richiede cure per tutta la vita; nella sua drammaticità ha aperto la strada per curare altre malattie croniche come l'ictus e alcuni tumori», ci spiega il dottor Massimo Leone, dirigente medico della Fondazione Irccs Istituto Neurologico Besta e referente dell'accordo con il Programma Dream. Questo accordo si concentra in particolare sull'epilessia, malattia cronica che oggi vede affette in Africa 25 milioni di persone «molti bambini e per l'85 per cento senza accesso alle cure». Un primo problema è che in Africa vi è un neurologo ogni 2,7 milioni di abitanti.
Il programma epilessia è attivo in tre Paesi: Malawi, Repubblica Centrafricana e Mozambico, dove riesce ad assicurare cure costanti per 2.200 malati. «Oltre il 90 per cento degli epilettici in Africa è seguito da personale non laureato», spiega Leone, «ed è così che i governi sopperiscono alla grave carenza di medici». Inoltre «questi operatori sanitari sono chiamati a curare malattie molto diverse tra loro per evitare che i malati girino da un centro all'altro, spesso a vuoto, non trovando né farmaci, né personale formato». «Il nostro intervento si basa sulla "triade": formazione continua, fornitura di farmaci e tecnologie», prosegue Leone. Sono stati formati oltre 260 operatori sanitari e la continuità del programma formativo è assicurata dall'attività clinica da remoto che, attraverso la piattaforma di teleneurologia della Global Health Telemedicine, permette di ricevere in Italia le domande dei clinici africani e gli esami effettuati nei centri in Malawi, Centrafrica e Mozambico dotati di videoelettroencefalografi.
«La drammatica carenza dei farmaci è l'ostacolo principale», precisa il medico italiano, che da oltre 20 anni fa la spola con l'Africa soprattutto con il Malawi. «La cura dell'epilessia in Africa non interessa all'industria farmaceutica; e la cura dei malati con epilessia non è tra le priorità dei governi africani - spiega -. Questi spendono in media tra i 60 e i 90 dollari all'anno pro capite per la salute del cittadino per cui basta una semplice infezione e i costi sostenuti per la cura antibiotica esauriscono il budget di quell'anno per quel malato. Spesso i malati con epilessia esasperati per non trovare medicine ci dicono: "Preferirei avere l'Hiv così almeno in quel caso avrei la garanzia di ricevere le cure"».
Oltre a non ricevere cure, in questi Paesi il malato di epilessia porta il grave peso dello "stigma": molti bambini smettono di andare a scuola e non sono accettati perché disturbano o perché gli insegnanti non sanno come comportarsi quando sopravvengono le crisi, temendo anche la possibilità di un contagio per loro e per gli altri bambini. «Molto spesso - racconta Leone - anche il personale medico ha paura degli epilettici e pensa di poter essere contagiato da questo "sortilegio". Molti bambini epilettici vengono "stigmatizzati" e non vanno più a scuola, con un aumento dei rischi di isolamento e di abusi». Curare queste persone, secondo il medico, ha quindi risvolti positivi anche sul piano sociale ed economico.
«La nostra priorità è salvare vite - precisa --, ma un altro effetto è che curare bene "cambia la cultura" perché il malato torna nella società. La paura cede alla cultura, l'isolamento lascia il posto all'accettazione dell'altro: c'è un cambiamento radicale, c'è un "portato" nella vita sociale con tante ricadute positive, per esempio i malati non sono più rifiutati al lavoro, possono sostenere le famiglie già di per sé in seria difficoltà». Secondo il neurologo, infine, anche nei Paesi più avanzati serve una formazione «per generare uno sguardo nuovo sull'Africa».
«Mostrare che "si può fare" aiuta i giovani a diventare "scienziati di speranza"; non sognatori irenici distanti dalla vita reale. Il programma Dream è per sempre, come per sempre sono necessarie le cure per le malattie croniche: nella fedeltà i giovani imparano un metodo. Non sono da soli: è un percorso, un cammino euro-africano. Oggi abbiamo un "noi operativo" che è un grande tesoro, che genera effetti concreti: cura e libera tanti malati africani, un modello che attrae e gratifica i nostri giovani, artefici di un impossibile che diventa possibile».

[ Valerio Palombaro ]