Il Sud Sudan ancora senza pace

L'escalation delle violenze nell'Alto Nilo nel racconto di suor Balatti

La regione dell'Alto Nilo, nel nord-est del Sud Sudan, è stravolta da un'ondata di violenze inter-comunitarie: secondo l'Onu, sono oltre 166 i morti e 237 i feriti tra la popolazione civile negli ultimi quattro mesi; quasi 40.000 gli sfollati. «Il rapporto dell'Onu riflette la realtà e, purtroppo, contiene numeri in difetto e non definitivi», dichiara a «L'Osservatore Romano», suor Ele Balatti, comboniana incaricata del coordinamento delle attività della Caritas nella regione dell'Alto Nilo.
Uno scenario preoccupante che sembra trovare "terreno fertile" nel rallentamento dell'attuazione degli accordi di pace, che nel 2018 misero fine alla guerra civile esplosa all'indomani dell'indipendenza del "giovane" Stato africano: il governo di transizione — del quale fanno parte gli ex rivali nel conflitto, il presidente Salva Kür e il vicepresidente Riek Machar — ha posticipato di due anni le elezioni, fissate ora al dicembre 2024; mentre anche i negoziati con le fazioni non firmatarie dell'intesa di quattro anni fa registrano uno stallo.
«Nessuno si aspettava che nel 2022, mentre siamo nelle fasi finali della realizzazione dell'accordo di pace del 2015 rinnovato nel 2018, una tale ondata di violenza potesse esplodere nuovamente», afferma Suor Balatti, parlando al telefono da Malakal, capoluogo della regione dove «la maggioranza delle persone vive uno shock per questa situazione». Le violenze coinvolgono anche parte delle vicine regioni di Jonglei e Unità; quest'ultima ricca di giacimenti petroliferi. «La parte ovest del fiume Nilo è letteralmente a ferro e fuoco», prosegue la religiosa, spiegando che tale scenario rallenta le attività umanitarie della Caritas. «Alcune attività per il reinserimento nei villaggi degli sfollati della guerra 2013- 2018 stavano andando bene, ma tra agosto e settembre tutto questo è stato spazzato via da un'ondata di violenze disumana e gravissima».
La Caritas, precisa Balatti, continua il suo lavoro, anche se «bisogna monitorare con grande attenzione l'evolversi degli eventi sul terreno. Ad esempio — spiega — abbiamo una richiesta umanitaria, approvata e per cui avremo i fondi, nello stato del Jonglei, ma stiamo valutando con grande attenzione se sia possibile far passare la nostra barca (che trasporta gli aiuti muovendosi lungo il Nilo) attraverso aree di possibili combattimenti. Siamo chiamati a continuare le nostre attività di assistenza umanitaria, ma al contempo non possiamo mettere a repentaglio il nostro personale».
Suor Balatti descrive una situazione della sicurezza «precipitata», ricordando in particolare due attacchi contro i campi profughi: il primo a settembre a Adidiang ed il secondo alcuni giorni fa a Aburoch, nella contea di Fashoda nell'Alto Nilo. «Gli attacchi ai rifugiati e ai civili disarmati sono dei crimini di guerra», sottolinea la suora, spiegando che nel campo profughi di Aburoch erano ospitate circa 6.000 persone, sfollati interni che ora cercano riparo nel campo profughi sovraffollato di Malakal. Si tratta di un campo profughi gestito dall'Onu nel capoluogo dell'Alto Nilo: l'Unhcr parla di quasi 40.000 persone ospitate a fronte di una capienza massima di 12.000. Nel campo profughi di Malakal si sarebbero anche verificate delle violenze sessuali, come indicato in un rapporto di un gruppo di esperti delle Nazioni Unite. La Commissione Onu per i diritti umani del Sud Sudan, a fine novembre, ha spiegato di avere ragionevoli motivi per ritenere che un commissario di contea dello Stato di Unità abbia persino orchestrato stupri di gruppo in un campo militare e ha quindi invitato il governo di Juba a indagare su questi casi per prendere le misure necessarie.
Uno scenario difficile in un Paese che non trova ancora una vera via d'uscita dal caos nel quale è sprofondato dopo l'indipendenza del 2011. Il governo di Juba ha per il momento ritardato l'appuntamento con le elezioni e nelle scorse settimane ha sospeso i colloqui, mediati dalla Comunità di Sant'Egidio, rivolti alle parti non firmatarie degli accordi di pace del 2018. «Ma il governo ha invitato in Sud Sudan i rappresentanti della Comunità di Sant'Egidio per spiegare la propria posizione - precisa -. La visita è avvenuta e ha avuto ampio spazio nella televisione locale: sembrano emergere speranze che questi negoziati possano continuare».
Il capo della missione Onu in Sud Sudan (Unmiss), Nicholas Haysom, ha intanto evidenziato che la proroga del governo di transizione «non dovrebbe essere considerata come una pausa di vacanza», ammonendo che «i ritardi stanno già avendo un effetto domino sui processi successivi». Un contesto complicato in cui arriva un importante segnale di speranza: il viaggio apostolico annunciato da Papa Francesco per inizio febbraio. «La popolazione locale, anche delle chiese non cattoliche, è molto contenta per questa visita — afferma suor Balatti —. E un segno di speranza che certamente avrà un impatto; qualche frutto senz'altro lo porterà. Apprezziamo molto lo sforzo del Papa, che intraprende questo viaggio con sacrificio personale, per sottolineare la necessità di vivere in pace». Un'esigenza che si avverte con estrema urgenza, conclude la suora, in questo periodo di avvicinamento al Natale.


[ Valerio Palombaro ]