La vecchiaia non è una sconfitta

Intervista all'arcivescovo Vincenzo Paglia

L'arcivescovo Paglia ha curato nelle settimane scorse l'edizione delle catechesi sulla vecchiaia svolte da Papa Francesco (La Vita lunga. Lezioni sulla vecchiaia. Papa Francesco. Vaticano 2022, euro 17). «E' un dono di Papa Francesco, la prima ed organica riflessione per una comprensione umana e cristiana della vecchiaia». Con lui cerchiamo di esplorare una specifica forma di vecchiaia: quella dei preti.
«E' un problema nel problema. Avete ragione a soffermarvici. Intanto perché è un fenomeno crescente: il clero, i religiosi, le religiose sono ormai una platea composta prevalentemente di anziani. La loro anzianità non sempre si configura come una mietitura felice di una semina a cui hanno dedicato l'intera vita. E sicuramente fino ad oggi il problema non è stato affrontato seriamente, sia a livello istituzionale che nelle pratiche delle singole diocesi. Non è stato ancora prodotto un pensiero su questi uomini e donne che hanno svolto un servizio importante, ricco di relazionalità, e che improvvisamente si trovano vecchi e fragili».
Quale potrebbero essere i lineamenti di questo pensiero?
Penso che le catechesi di Papa Francesco abbiano fornito alcune indicazioni per una spiritualità degli anziani che ben valgono anche per i preti: il saper lasciare spazio a chi ci subentra, e il saper riconoscere i propri limiti naturali, la propria fragilità, innanzitutto. Anche la resistenza ai propri limiti e alla propria finitudine sono nell'ordine naturale delle cose però. Ma vede, dobbiamo far capire che la vecchiaia non è una sconfitta. E piuttosto un magistero di sapienza, di memoria, del sapore della vita trascorsa da trasmettere. E anche un magistero della "fragilità": la fragilità ha tanto da dirci ed insegnarci. La fragilità insegna anche senza parole, col solo corpo: ci ricorda che siamo tutti fragili. Pensa per esempio a quanto ci disse, pur senza parole, Giovanni Paolo II nell'ultimo scorcio della sua vita.
E il lasciare lo spazio?
Quello è fondamentale. Noi guardiamo sempre alla fragilità fisica, meno alle prove psicologiche. C'è tanta sofferenza, ma anche una grande prova d'umiltà, nel sapersi mettere di lato, dopo una vita interamente dedicata alla Chiesa. Che è una vita integrale, cioè il laico pur nella dedizione al lavoro e alla famiglia, coltiva sempre spazi autonomi d'interesse, mentre il prete è spesso prete 24 ore al giorno per 60 anni. Specie quando la frenata è brusca il colpo dí frusta è doloroso, si fa sentire.
E come ci si mette di lato?
Non a caso ho detto di lato, non in fondo. Perché nella vecchiaia c'è anche la scoperta, o meglio la riscoperta di una nuova prospettiva: il tempo della preghiera. Come lo definiva Papa Benedetto. Nella vita del prete giovane la preghiera spesso cede il passo al fare. Ritrovare la dimensione della preghiera è fondamentale. Pregare non è un rimedio al non fare. Se crediamo veramente all'efficacia della preghiera, questo è il vero e importante contributo che il prete anziano può dare alla Chiesa. E la Chiesa ne ha bisogno. Ho un bellissimo ricordo di un prete molto anziano che ogni giorno si metteva davanti al mappamondo, puntava un paese e pregava: «Adesso ho capito perché il Signore mi fa vivere così a lungo. Perché vuole che io preghi per la pace in ogni paese del mondo». Il più grande magistero affidato ad un prete vecchio è: la morte non chiude alla vita, ma la apre all'eterno. E può essere trasmesso anche senza parole, con la semplice mite presenza in seno ad una comunità.
Perché allora la vecchiaia fa paura anche ai preti?
Guardi, penso che il peggior nemico della vecchiaia sia l'idea che ne abbiamo. Si, purtroppo questa paura alberga anche nella Chiesa, e non è bello perché è una misura della genuinità della nostra fede nell'eterno. Al contrario del Vangelo, ricorda Nicodemo che chiede a Gesù, «Come può nascere un uomo quando è vecchio?» e il Signore gli risponde: «Se uno non nasce dall'alto non può vedere il Regno di Dio (Gv 3, i)».
E dove questo magistero dell'anziano prete dovrebbe esercitarsi?
Io credo che i vecchi devono rimanere negli ambienti, famiglie e comunità dove sono vissuti. Le cosiddette case del clero non mi sembrano la soluzione giusta. Semmai — se non possono più rimanere nella comunità originaria — sarebbero meglio delle piccole comunità famigliari di 3/4 preti che vivano insieme supportati da un'assistenza. Le voglio raccontare un aneddoto. Quando ero parroco a Trastevere la basilica era dotata di un potente sistema campanario che batteva ogni quarto d'ora, giorno e notte. Un giorno il sistema elettrico di attivazione si guastò e le campane smisero di suonare. Il giorno dopo ricevetti una fila di vecchietti che venivano a lamentarsi: «Ma le campane? Che è successo?». Io me ne uscii con una battuta: «Certo che se aveste fede in Gesù come nelle campane....». Ma la loro risposta mi disarmò «Ah don Vince' , ma a noi, che dormimo poco, le campane ce fanno passa' la nottata».
La consuetudinarietà per un vecchio è fondamentale, per questo sono convinto che toglierli da casa, dal loro ambiente abituale, sia una tragedia.
Quindi il permanere di una vita comunitaria?
Certo, il problema non è solo di luoghi, ma di relazioni. La vecchiaia non può essere il tempo del rifugio nell'individualità. Io penso che nella Chiesa dobbiamo fare attenzione a non istituzionalizzare la vecchiaia, in luoghi, tempi e ruoli separati. Voglio chiedere: cosa fanno le Chiese locali per sensibilizzare il popolo di Dio su questo tema? I preti anziani potrebbero dare molto in questo senso. Mi domando ancora: in ogni diocesi c'è un responsabile della pastorale giovanile, ma quasi mai c'è un analogo responsabile della pastorale degli anziani. Eppure sono i più numerosi nelle nostre chiese. I preti vecchi nelle diocesi sono un problema dell'economo. E questo non va bene. Dobbiamo capire tutti che in Paradiso ci entriamo con gli anziani! 


[ Roberto Cetera ]