La lezione dei nostri immigrati

Accoglienza

Vorrei soffermarmi sulla bella storia di Yankuba Darboe del Gambia pubblicata nei giorni scorsi sul sito del Corriere del Mezzogiorno. Giunto in Italia nel 2014, ad appena 17 anni, dopo avere attraversato il Mediterraneo, ha subito cominciato a lavorare al nero nei campi di tabacco. L'impatto con un lavoro al limite dello schiavismo non ha però spento il grande desiderio di studiare. E oggi, laureato in Scienze Biologiche, assiste i migranti che vivono nella precarietà, oltre a essere pienamente integrato a Benevento, la città in cui risiede.
C'è da essere orgogliosi di Yankuba «nuovo campano», anche se la cittadinanza italiana - a causa di una cattiva legge che tarda a essere riformata - non gli è stata ancora concessa. Si tratta di una vicenda edificante che spinge a fare alcune considerazioni.
In primo luogo, un ringraziamento sentito al Corriere del Mezzogiorno per avere dato spazio (non è la prima volta) a una storia che offre finalmente una prospettiva equilibrata e reale di chi sono i ragazzi immigrati. Il vero giornalismo non è rincorrere l'ideologia dominante quanto contribuire a comprendere le trasformazioni della nostra società in modo pacato e costruttivo. In secondo luogo, e parlo con cognizione di causa, mi viene subito da pensare ai tanti ragazzi come Yankuba che vivono in mezzo a noi perseguendo il sogno di studiare e integrarsi.
E' un'esperienza che faccio continuamente quando parlo con loro, li ascolto, dialoghiamo, e traggo sempre la convinzione che la loro presenza è un grande arricchimento per la nostra società. Anzi, il più delle volte affiora un senso di debito per essere stati accolti nel nostro Paese: riconoscenza che li spinge a mettersi a disposizione per aiutare i più deboli.
Mi chiedo allora perché questi aspetti rimangono spesso nascosti: lo è sicuramente perché il «pensiero unico» porta a ritenere che chi viene da fuori è un pericolo. Ma soprattutto perché le occasioni di conoscenza diretta fra italiani e immigrati sono ancora troppo poche. La sensazione è che si vive uno accanto all'altro senza entrare in relazione. Credo invece che sia necessario moltiplicare le occasioni di incontro e di amicizia, in particolare nei luoghi preposti all'inclusione: penso alla scuola, all'università, allo sport, ai luoghi di lavoro, ma anche alle forme di associazionismo di cui il tessuto sociale e culturale della Campania è tanto ricco e articolato.
Allo stesso tempo, non è sempre necessario che un'istituzione debba farsi carico per costruire «ponti»: ognuno può farlo cominciando da sé, facendo il primo passo. Lo si può fare in questi giorni con le donne ucraine che numerose hanno manifestato in piazza Garibaldi contro la guerra o mercoledì scorso nei pressi della Chiesa di San Pietro Martire insieme ai Giovani per la Pace e a Genti di Pace della Comunità di 

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. Ed ancora domenica scorsa il Duomo dì Napoli ha accolto l'unanime invocazione alla pace di tante di loro preoccupate per le loro famiglie in Ucraina. In tal modo, ci hanno ricordato che la guerra è un gioco per i potenti, ma un dramma per la gente comune.
Solidarizzare con la comunità ucraina, che rappresenta la comunità straniera più numerosa in Campania, è il miglior modo per dare un'anima al pacifismo di cui è intrisa l'umanità dei campani, anche perché da queste parti sono ancora evidenti le devastanti ferite provocate dai conflitti. Insomma, le vicende di Yankuba e delle donne ucraine ci inducono a credere che davvero solo in una prospettiva di prossimità e di immedesimazione si può costruire una società più umana. Una dimensione imprescindibile alla luce della pandemia che speriamo vada a ridimensionarsi. Ma non per questo va dimenticata la lezione che da essa si trae: che cioè solo con un forte senso di comunità e adesione per l'altro è possibile ricostruire il nostro vivere insieme.

 


[ Francesco Dandolo ]