Vangelo secondo San Luca - Le Parole della Croce

I Stazione

Il tradimento e l'amicizia

Quando fu l'ora, prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: «Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi, prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più, finché essa non si compia nel regno di Dio». E preso un calice, rese grazie e disse: «Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio». Poi, preso un pane, rese grazie, lo spezzò e lo diede loro dicendo: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me». Allo stesso modo dopo aver cenato, prese il calice dicendo: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi». «Ma ecco, la mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola. Il Figlio dell'uomo se ne va, secondo quanto e stabilito; ma guai a quell'uomo dal quale è tradito!». Allora essi cominciarono a domandarsi a vicenda chi di essi avrebbe fatto ciò. Sorse anche una discussione, chi di loro poteva esser considerato il più grande. Egli disse: «I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui die serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve. Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l'ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno e siederete in trono a giudicare le dodici tribù di Israele.
Simone, Simone, ecco satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano; ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede; e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli». E Pietro gli disse: «Signore, con te sono pronto ad andare in prigione e alla morte». Gli rispose: «Pietro, io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi». Poi disse: «Quando vi ho mandato senza borsa, né bisaccia, né sandali, vi è forse mancato qualcosa?». Risposero: «Nulla». Ed egli soggiunse: «Ma ora, chi ha una borsa la prenda, e così una bisaccia; chi non ha spada, venda il mantello e ne compri una. Perché vi dico: deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato tra i malfattori. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine». Ed essi dissero: «Signore, ecco qui due spade». Ma egli rispose «Basta!».

(Lc 22,14-38)

 

«Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua con voi prima della mia passione». Queste parole di Gesù giungono fino a noi e spiegano, forse, perché a volte, nella nostra vita, ci siamo ritrovati alla sua tavola. Non per i meriti, le risorse, le capacità, ma per un ardente desiderio del Signore stesso. Ha desiderato ardentemente cenare con i suoi. E lui che ha voluto non essere solo a questa tavola. È paradossale ma è proprio così. Mentre molti di noi si vergognerebbero a dichiarare di non voler restare da soli. Gesù, che può tutto, non nasconde questo suo desiderio. Così il suo invito è giunto fino a noi.

Si è seduto a tavola con tutti, anche con colui che lo tradiva. Prese il pane, rese grazie, lo diede loro e fece allo stesso modo con il calice. Erano insieme per vivere la Pasqua e Gesù parlava perché comprendessero il grande dono della cena con lui. La sua parola li toccò, li turbò e cominciarono ad interrogarsi a vicenda. La parola di Gesù fa interrogare la comunità intorno alla tavola. La parola del Signore entra fin nel profondo del cuore e della vita. Ci rende contemporanei di quello che è accaduto attorno a quella tavola e della passione del Signore. Siamo spesso turbati di essere così vicino a lui. Siamo turbati accanto a questo Signore che a Gerusalemme sta vivendo la sua Pasqua. Questo turbamento si manifesta anche nella fatica a seguirlo in queste ore, quando il suo insegnamento è sempre meno fatto di parole e sempre più di vita vissuta da lui stesso. Per questo, di fronte ai comportamenti dei discepoli, Gesù esplode in un «Basta!».

Perché? Quei discepoli, pur essendo vicini, pur avendo ascoltato tante volte la sua parola, non capivano quello che stava accadendo a lui. Il loro cuore era come indurito: non riuscivano a capire o forse non volevano capire. Gesù li aveva chiamati vicino a sé, attorno alla tavola, per spiegare quello che stava accadendo. Un'ora difficile, tragica, l'ora in cui sarebbe passato da questa vita alla morte. Cercava con le sue parole di spiegare loro il senso di un'ora drammatica: «Deve compiersi in me questa parola della Scrittura: E fu annoverato fra i malfattori. Infatti tutto quello che mi riguarda volge al suo termine».

Gli stavano vicino, erano a tavola con lui, ma erano lontani e non comprendevano. Gli si avvicinarono e gli dissero: «Ecco abbiamo due spade». Volevano difendersi nel caso fosse stato necessario. Quel «basta» esprime il sentimento di Gesù di fronte ai suoi che stentavano ancora a comprendere cosa significasse essere discepoli. È un urlo che giunge fino a noi. Esprime l'amore di un maestro umiliato dall'incomprensione del suo lungo insegnamento. Esprime il dolore di un amico che proprio non si ritrova capito.

Non sappiamo quando i due discepoli avessero comprato le spade, né dove le avessero conservate, né se le portassero nelle loro bisacce fin dalla Galilea, casomai fosse stato necessario difendersi. Il fatto, inquietante, è che ci sono delle spade nascoste nelle bisacce, nel cuore, nella vita dei discepoli. Queste spade sono certamente un segno di diffidenza e della violenza che persiste nel loro cuore. Manifestano la sfiducia nella parola del Signore, unica vera spada dei credenti. Del resto, tra i discepoli ci sono spesso manifestazioni di ira e di rissosità.

Infatti a tavola sorse fra loro una discussione su chi doveva essere considerato il più grande. Il Signore disse: «Fra voi non sia così». Quando sorge una discussione su chi può essere considerato il più grande è la prova, se ce n'è bisogno, che i discepoli proprio non hanno capito a chi stanno vicino. «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» - dice Gesù. Al contrario i re delle nazioni e quelli che hanno il potere e vengono chiamati benefattori rischiano di essere un modello per i discepoli. La discussione è un modo di voltare le spalle al Signore e di non accorgersi che lui sta in mezzo a noi come colui che ha apparecchiato la tavola, che ha lavato i piedi agli amici. Perché discutete in questo modo? «Io sto in mezzo a voi come uno che serve». Ma i discepoli discutono tra loro. Simon Pietro si sente forte, crede di poter fare da solo. Il Signore gli aveva parlato perché, dopo essere stato vagliato come il grano, la sua fede non venisse meno. «Sono pronto con tè ad andare in prigione e alla morte» - disse l'apostolo. Mentre Pietro parla così, è tutto preso dal suo coraggio e dal senso di sé. «Pietro io ti dico: non canterà oggi il gallo prima che tu per tre volte avrai negato di conoscermi» - gli ribatte Gesù. Simon Pietro non accetta di passare attraverso la sua debolezza e il suo peccato («ecco satana vi ha cercato») per poi potersi ravvedere e finalmente confermare i suoi fratelli. Il discepolo maturo è colui che passa attraverso la debolezza e l'incontro con la forza del male. Ma Simon Pietro risponde: «Signore, con tè sono pronto ad andare in prigione e alla morte».

Non capiscono il Signore, perché non sono così poveri e semplici da ascoltare la sua parola: devono aggiungere, discutere. In mezzo a loro c'è anche l'ombra di Giuda. Egli siede alla stessa tavola. Chi è Giuda? Sembra l'espressione rozza del male, uno che per trenta denari vende il Signore. Quel denaro è un compenso sporco, indegno di essere conservato nel tesoro del tempio. Nella nostra prospettiva il suo sembra un tradimento così volgare da essere stupido, senza motivo e senza vantaggio. Giuda, in verità, porta alle conseguenze estreme un clima di diffidenza e delusione che si era creato tra i discepoli: «Sorse anche una discussione: Chi di loro poteva essere considerato il più grande». Giuda ragiona a partire dal desiderio di essere considerato più grande, di uscire dalle difficoltà e dall'insoddisfazione vincendo sugli altri. Giuda manifesta il desiderio di prevalere sugli altri, il piacere di avvilire gli altri, il fastidio di essere come gli altri. Quando egli esce dal luogo dove erano riuniti attorno alla tavola con Gesù, da retta al desiderio di vivere finalmente per se stesso cercando il suo interesse a ogni costo. Giuda, inutile negarlo, ha anche voglia di uccidere. Questo rancore assassino ce lo fa sembrare lontano, diverso. Ma non è proprio così diverso. C'è una voglia di cancellare chi ci contrista o ci inquieta, anche in persone comuni. In tanti esiste questa voglia di eliminare gli altri, anche se moderata o camuffata.

Questo desiderio di eliminare una persona così buona può apparire perverso. E la volontà di mostrare a sé e al mondo che non ci sono persone migliori di noi. Non è strano. Esiste anche nel mondo, nella città, nelle famiglie, nelle case, sul lavoro, e c'è, purtroppo anche nelle esperienze religiose. C'è nella vita. Cresce, a volte, impensato, e si allea a tanti rancori e paure. Diviene odio di gruppo che manifesta la sua ragione di esistere contro gli altri. Certo, non è un desiderio, normalmente, violento come quello di Giuda. Anche chi è debole a volte ha dentro di sé un desiderio di far male, di umiliare chi è migliore, di spegnere le testimonianze. Lo si vede nella folla.

 

II Stazione

Dormire compiangendo se stessi

Uscito se ne andò, come al solito, al monte degli Ulivi; anche i discepoli lo seguirono. Giunto sul luogo, disse loro: «Pregate, per non entrare in tentazione». Poi si allontanò da loro quasi un tiro dì sasso e, inginocchiatosi, pregava: «Padre, se vuoi, allontana da me onesto calice! Tuttavia non sia fatta la mia, ma la tua volontà». Gli apparve allora un angelo dal cielo a confortarlo. In preda all'angoscia, pregava più intensamente: e il suo sudore diventò come gocce di sangue che cadevano a terra. Poi, rialzatesi dalla preghiera, andò dai discepoli e li trovò che dormivano per la tristezza. E disse loro: «Perché dormile? Alzatevi e pregate, per non entrare in tentazione».
(Lc 22,39-46)

«Perché dormite?» - chiese Gesù. Perché dormivano sul monte degli Ulivi, dove Gesù era andato con loro come al solito? Egli aveva parlato a lungo di quello che stava per accadere: «Quello che mi riguarda volge al suo termine». Poi aveva insistito nuovamente: «Pregate per non entrare in tentazione»». Ma i discepoli si erano addormentati. In quella situazione così tesa, si erano distaccati da lui e si erano rifugiati nel sonno, presi dalla tristezza. Lo avevano lasciato solo, credendosi a loro volta soli, prigionieri di una situazione difficile. Non avevano capito la sua parola e quello che stava accadendo. Erano dominati da un senso di tristezza. Gesù non era molto lontano da loro, solo un tiro di sasso. Conosciamo la scena. Loro dormivano e lui pregava in preda all'angoscia. Pregava intensamente e diceva: «Padre, se vuoi, allontana da me questo calice. Tuttavia non sia fatta la mia ma la tua volontà». Era la preghiera di un condannato a morte, di un uomo che aspetta la sua ora e sente la fine vicina. Ma sa die non è stato dimenticato dal Padre e si rivolge a lui.

Proprio vicino al Monte degli Ulivi passa la strada che va da Gerusalemme a Gerico. Forse imboccando quella strada, anche di notte, Gesù avrebbe potuto salvare la sua vita. Forse con quelle due spade offertegli dai discepoli avrebbe potuto difendersi dai ladroni e dai briganti che infestavano la via fra Gerico e Gerusalemme, dove il buon Samaritano era passato e aveva trovato un uomo mezzo morto. Ma Gesù non imbocca quella via. Si ferma su quella altura, ricoperta di ulivi, da cui si vede Gerusalemme e da cui si sente il rumore della città. Da solo prega. Non ha armi ne si trova in compagnia. Sembra abbandonato da tutti, anche da quelli che gli sono più vicini. Sembra abbandonato agli uomini. A vederlo così, è davvero un ..orno abbandonato. Ma c'è un segno di affetto per quell'uomo che prega. Solamente gli apparve un angelo dal cielo a confortarlo. Era la risposta di Dio alla sua preghiera. Solo Dio non lo avrebbe abbandonato lungo la sua via dolorosa. È la manifestazione della bontà di Dio e della sua misericordia fedele. Ma l'apparizione di quell'angelo è anche un'accusa silenziosa ad ogni donna e ad ogni uomo: non si è trovato nessuno che lo consolasse. E venuto un angelo dal cielo. I suoi discepoli, invece, presi da se stessi, si sentivano più sofferenti, più deboli, più poveri di Gesù e compiangevano se stessi. Questa è la loro tristezza. Quando si comincia a compiangere se stessi, ci si dimentica di quel condannato a morte nell'orto degli ulivi. Quando si comincia a compiangere se stessi, ci si dimentica di tutti quelli che soffrono, che sono malati, soli, che attendono l'ora drammatica della propria morte. Perché dormite? È una domanda che viene rivolta anche a noi, discepoli di Gesù in questo ultimo tempo. E una domanda che ci viene rivolta dal Signore, che ci risveglia e ci dice: «Alzatevi e pregate per non entrare in tentazione» Il maestro, pur essendo preso da un grande dolore, non ne è prigioniero. Infatti continua a parlare ai suoi discepoli: «Alzatevi e pregate per non entrare in tentazione». Lui si è alzato e sta pregando.

 

III Stazione

Una violenza contagiosa

Mentre egli ancora parlava, ecco una turba di gente; li precedeva colui che si chiamava Giuda, uno dei Dodici, e si accostò a Gesù per baciarlo. Gesù gli disse: «Giuda, con un bacio tradisci il Figlio dell'uomo ?». Allora quelli che erano con lui, vedendo ciò che stava per accadere, dissero: «Signore, dobbiamo colpire con la spada?». E uno di loro colpì il servo del sommo sacerdote e gli staccò l'orecchio destro. Ma Gesù intervenne dicendo: «Lasciate, basta così!». E toccandogli l'orecchio, lo guarì. Poi Gesù disse a coloro che gli erano venuti contro, sommi sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani: «Siete usciti con spade e bastoni come contro un brigante? Ogni giorno ero con voi nel tempio e non avete steso le mani contro di me; ma questa è la vostra ora, è l'impero delle tenebre».
(Lc 22,47-53)

Disarmato per scelta, rifiutando le armi, anche quella di uno che era con lui, Gesù si rivolge agli armati che sono venuti a prenderlo con spade e bastoni come si va contro un brigante. La violenza si scatena. Non si può negarlo, c'è violenza in ogni uomo. Più l'uomo è indifeso, più la violenza si scatena contro di lui e sembra vincerlo. Ci sono momenti nella storia degli uomini, ma soprattutto dei popoli, in cui la violenza sembra vincere. Ci sono momenti anche nella storia di Gesù in cui la violenza sembra vincere. Non conviene rispondere con la violenza?

«Questa è la vostra ora - dice Gesù – È l'impero delle tenebre». E l'ora della vittoria della violenza e del male. Eppure negli occhi, nel cuore di quest'uomo c'è una forza profonda. E la forza di chi sa che questa non è l'ultima ora, che ci sarà un'altra ora, non così buia, l'ora che il Padre ha preparato. I suoi occhi vedono con la fede un'ora diversa. Il suo cuore crede in un'ora differente, quell'ora che gli uomini non possono garantirgli, che la spada non può donargli, ma che solo Dio può dargli. In quell'ora le spade taceranno, i bastoni saranno gettati lontano e risplenderà la luce di Dio. Ma per ora è buio. È l'ora dell'«impero delle tenebre». In quest'ora, Gesù è un piccolo uomo solo e abbandonato nelle mani degli armati. Non ci è dato di sapere quel che avesse nel cuore. Era fiducioso nel Signore come la sua unica difesa. Forse le parole del Salmo 34 possono esprimerlo: «Questo povero grida e il Signore lo ascolta, lo libera da tutte le sue angosce».

Gesù sperava che i suoi discepoli non si disperdessero durante la sua passione, di fronte al suo arresto. Ma ben presto - stava ancora parlando – vide che la violenza li stava prendendo. Non solo il caso di Giuda, uno dei Dodici, che tradisce il Figlio dell'uomo con un bacio. Ma soprattutto quelli che erano con lui, che gli chiesero: «Dobbiamo colpire con la spada?» E alla fine anche uno di loro senza aspettare la sua risposta staccò l'orecchio destro al servo del sommo sacerdote. I discepoli non potevano accettare una rinuncia così chiara all'uso della forza. Non riuscivano ad accettare quell'ora. Non potevano capire perché non avevano pregato, non avevano ascoltato, perché erano stati accanto al Signore come fossero stati accanto a se stessi. Lo avevano seguito, gli erano stati vicini, ma in fondo erano lontani con il cuore.

Gesù disse di nuovo: «Basta così!». E, da quel momento, fu completamente nelle mani di quelli che erano venuti a prenderlo. Era una turba di gente di Gerusalemme: sacerdoti, capi delle guardie del tempio e anziani. Erano venuti con spade e bastoni come si va incontro a un brigante. Aneli. loro non avevano capito die Gesù non avrebbe mai usato la spada per difendersi. Non avevano capito che non avrebbero dovuto cercarlo fra gli ulivi, come quando si caccia un uomo che fugge, con spade e bastoni, come quando si insegue un brigante che si nasconde. Gesù stava in mezzo a loro nel tempio a predicare, ma loro erano venuti di notte ad arrestarlo, come per prendere un bandito o un violento, indifeso nel sonno. Ma lo avevano trovato sveglio che pregava e disarmato die parlava con i suoi discepoli.

 

IV Stazione

La storia di Pietro

Dopo averlo preso lo condussero via e lo fecero entrare nella casa del sommo sacerdote. Pietro lo seguiva da lontano. Siccome avevano acceso un fuoco in mezzo al cortile e si erano seduti attorno, anche Pietro si sedette in mezzo a loro. Vedutolo seduto presso la fiamma, una serva fissandolo disse: «Anche questi era con lui». Ma egli negò dicendo: «Donna, non lo conosco!». Poco dopo un altro lo vide e disse: «Anche tu sei di loro!». Ma Pietro rispose: «No, non lo sono!». Passata circa un 'ora, un altro insisteva: «In verità, anche questo era con lui: è anche lui un Galileo». Ma Pietro disse: «O uomo, non so quello die dici». E in quell'istante, mentre ancora parlava, un gallo cantò. Allora il Signore, voltatosi, guardò Pietro, e Pietro si ricordò delle parole che il Signore gli aveva detto: «Prima che il gallo canti, oggi mi rinnegherai tre volte». E, uscito, pianse amaramente.
(Lc 22,54-62)

Se c'è una consolazione per Gesù, durante la passione, è voltare gli occhi per un attimo e vedere che Pietro si ricorda delle parole che lui gli aveva detto. Questa consolazione avviene nella casa del sommo sacerdote in mezzo al cortile. Pietro seguiva Gesù da lontano ed era giusto che lo seguisse così perché era lontano. Gesù si voltò e vide Pietro, lo guardò e Pietro, incontrando lo sguardo del Signore, si ricordò della sua forza orgogliosa e un po' ridicola: si era detto poco prima «pronto ad andare in prigione», «pronto a morire». Forse era Pietro uno di quelli che colpì il servo del sommo sacerdote. Ma cosa vuoi dire essere forti, vincere, essere aggressivi, essere prepotenti, usare la spada o essere violenti?

Vediamo ora Pietro che si spaventa delle parole di una serva che gli dice: «Tu eri con lui». E anche un altro gli disse: «Tu eri di loro». Ed anche un altro disse: «Anche questo era con lui, anche lui è un galileo». Bastarono queste poche affermazioni perché Pietro rispondesse agitato: «O uomo non so quello che dici». E un gallo cantò, come il Signore aveva detto.

Il discepolo si fa vicino al Signore quando piange amaramente come Pietro, perché si rende conto di quanto è distante da lui. Il discepolo del Signore è grande nella sua debolezza. È grande quando si lascia toccare dallo sguardo del Signore e dalle sue parole. È un vero discepolo quando si ricorda delle parole che il Signore ha detto. La fede fa piangere. Le lacrime non sembrano un gesto di coraggio ma sono un'espressione di fede, una richiesta di perdono. Con le lacrime rifiorisce la fede in Pietro. Pietro è uno di noi con le sue esagerazioni, la sua fiducia in se stesso e nella forza. Ma è anche uno di noi con la sua memoria delle parole di Gesù, le sue lacrime. 

 

V Stazione

Un condannato, torturato come tanti

Frattanto gli uomini che avevano in custodia Gesù lo schernivano e lo percuotevano, lo bendavano e gli dicevano: «Indovina: chi ti ha colpito?». E molti altri insulti dicevano contro di lui.
(Lc 22, 63-65)

Quella notte Gesù venne torturato, schernito, percosso. Fu bendato tanto che non sapeva nemmeno chi lo percuoteva. Lo prendevano in giro: «Indovina chi ti ha colpito?». Tanti altri insulti erano lanciati contro di lui. Quella notte, bendato in un carcere, fu per Gesù una notte in tutto uguale a quelle di tanti altri condannati. Leggere questo Vangelo per noi oggi è ricordarci di questo immenso popolo di sofferenti, di torturati, di carcerati, di abbandonati. Per noi che dormiamo per la tristezza, è una memoria. Il migliore degli uomini, il Signore Gesù, il più grande degli uomini, è stato un carcerato, un abbandonato, un torturato.

Allora ha condiviso la notte lunga e buia di tanti ammalati, abbandonati, di tanti prigionieri. Lungo i giorni della sua vita, ha predicato per liberare i prigionieri e guarire gli ammalati. Alla fine Gesù ha annientato ogni distanza da tutti quei sofferenti, ritrovandosi tra i più disgraziati mentre viene annientata ogni sua dignità. La sua sofferenza lo lega alla catena ininterrotta dei torturati e dei condannati gettati nel buio assoluto e nel dolore

 

VI Stazione

Dio: ucciso da una legge religiosa

Appena fu giorno, si riunì il consiglio degli anziani del popolo, con i sommi sacerdoti e gli scribi; lo condussero davanti al sinedrio e gli dissero: «Se tu sei il Cristo, diccelo». Gesù rispose: «Anche se ve lo dico, non mi crederete; se vi interrogo, non mi risponderete. Ma da questo momento starà il Figlio dell'uomo seduto alla destra della potenza di Dio». Allora tutti esclamarono: «Tu dunque sei il Figlio di Dio?». Ed egli disse loro: «Lo dite voi stessi: io lo sono». Risposero: «Che bisogno abbiamo ancora di testimonianza ? L'abbiamo udito noi stessi dalla sua bocca». Tutta l'assemblea si alzò, lo condussero da Pilato e cominciarono ad accusarlo: «Abbiamo trovato costui che sobillava il nostro popolo, impediva di dare tributi a Cesare e affermava di essere il Cristo re». Pilato lo interrogò: «Sei tu il re dei Giudei?». Ed egli rispose: «Tu lo dici». Pilato disse ai sommi sacerdoti e alla folla: «Non trovo nessuna colpa in quest'uomo». Ma essi insistevano: «Costui solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea fino a qui». Udito ciò. Pilato domandò se era Galileo e, saputo che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che in quei giorni si trovava anch'egli a Gerusalemme. Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto, perché da molto tempo desiderava vederlo per averne sentito parlare e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui. Lo interrogò con molte domande, ma Gesù non gli rispose nulla. C'erano là anche i sommi sacerdoti e gli scribi, e lo accusavano con insistenza. Allora Erode, con i suoi soldati, lo insultò e lo schernì, poi lo rivestì di una splendida veste e lo rimandò a Pilato. In quel giorno Erode e Pilato diventarono amici; prima infatti c'era stata inimicizia tra loro.
Pilato, riuniti i sommi sacerdoti, le autorità e il popolo, disse: «Mi avete portato quest'uomo come sobillatore del popolo; ecco, l'ho esaminato davanti a voi, ma non ho trovato in lui nessuna colpa di quelle di cui lo accusate: e neanche Erode, infatti ce l'ha rimandato. Ecco, egli non ha fatto nulla che meriti la morte. Perciò, dopo averlo severamente castigato, lo rilascerò». Ma essi si misero a gridare tutti insieme: «A morte costui! Dacci libero Barabba!». Questi era stato messo in carcere per una sommossa scoppiata in città e per omicidio. Pilato parlò loro di nuovo, volendo rilasciare Gesù. Ma essi urlavano: «Crocifiggilo, crocifiggilo!». Ed egli, per la terza volta, disse loro: «Ma che male ha fatto costui? Non ho trovato nulla in lui che meriti la morte. Lo castigherò severamente e poi lo rilascerò». Essi però insistevano a gran voce, chiedendo che venisse crocifisso; e le loro grida crescevano. Pilato allora decise che la loro richiesta fosse eseguita. Rilasciò colui che era stato messo in carcere per sommossa e omicidio e che essi richiedevano, e abbandonò Gesù alla loro volontà.

(Lc 22,66-23,25)


Ci sono tre palazzi: quello del sinedrio, dov'è riunito il consiglio degli anziani del popolo con i sommi sacerdoti e gli scribi, il palazzo di Pilato e quello di Erode. Sono molto diversi tra loro come anche i loro abitanti. Il sinedrio è il potere religioso. Pilato è il grande potere vincente, che viene da Roma. Erode è il potere di un piccolo tiranno di provincia. Pilato conosce il mondo, prova dubbi e incertezze davanti a quell'uomo: è sicuramente più sfumato, più raffinato degli altri giudici di Gesù. Erode è rozzo, si rallegra a incontrare Gesù, si vuole divertire magari vedendo un miracolo, ed è alla fine insoddisfatto del fatto che Gesù non risponda nulla. Il sinedrio che ha ordito la trama è imbevuto di fanatismo religioso: condanna Gesù per le sue parole. Fu infatti condannato dalla sua stessa parola detta davanti ai suoi giudici.

Tre poteri, tre palazzi: sinedrio, Pilato ed Erode, gente diversa, ma un'unica solidarietà tra di loro. Dice il Vangelo: «In quel giorno Erode e Filato diventarono amici; prima infatti c'era stata inimicizia tra loro». Diventarono amici sul sangue di quel giusto Gesù. Tra questi palazzi, dove ci collochiamo? Forse siamo come quella folla che ha inneggiato al Signore che entrava in Gerusalemme ma che è scomparsa, che non lo ha accompagnato. Forse siamo gli altri che hanno gridato «crocifiggilo», magari senza capire di chi si stava parlando. E difficile collocarsi. C'è gente che si è associata alla sentenza di morte contro Gesù senza capirci niente. Ma lo dicevano tutti, perché non dirlo? Tutti insistevano, perché non unirsi a quelle grida? Il potere fanatico, il potere illuminato, civile, il potere di provincia, tutti i poteri non hanno riconosciuto Gesù, anzi sono diventati amici da nemici che erano. Questa è la storia del processo di Gesù: un innocente che diceva di essere il Figlio dell'Uomo che si sarebbe seduto alla destra della potenza di Dio. Fu condannato in base ad una legge religiosa. Fu torturato dalla giustizia ingiusta di un tiranno. Erode. Fu condannato da Pilato in nome dell'elaborato diritto romano. Un innocente non ha trovato giustizia davanti a tre tribunali.

Il pensiero va ai tanti che cercano aiuto, giustizia, che sono trascinati davanti a tribunali, spesso sommari, che sono condotti ad un luogo o all'altro in tante parti del mondo. Il pensiero va a quelli che esercitano un potere, spesso come Erode o peggio, con il fanatismo dei sommi sacerdoti, degli scribi e del sinedrio. In quest'ora di letture della passione, in cui si vede come l'uomo, figlio di Dio, viene distrutto, il pensiero va alla sofferenza di tanti.

Quest'ora chiede uno sguardo più comprensivo, più partecipe, più buono, meno duro, non da estranei, non come quello di chi non si vuole intromettere, di chi non si sente chiamato alla compassione e alla comprensione. Quest'ora chiede di prendere posizione con fede di fronte alla forza del male che è in noi e attorno a noi.

Quello di Gesù è un processo rapido, perché rapidamente lo volevano mettere a morte. Fu interrogato dal sinedrio, poi da Pilato, e Pilato, saputo che era galileo e che apparteneva alla giurisdizione di Erode, lo mandò da Erode che si trovava in quei giorni a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quale fu l'accusa? Essere il Cristo, il salvatore, venuto appunto a liberare gli uomini dal loro carcere, dalla loro malattia, dal loro peccato, dal loro insensibilità, dalla loro violenza: dirsi figlio di Dio. «Tu sei il Figlio di Dio?» E Gesù risponde: «Lo dite voi stessi». Gesù non dice molte parole. Taceva davanti ad Erode, ma anche davanti a Pilato. Quando gli chiese se era il re dei Giudei, rispose soltanto: «Tu lo dici». Pilato arrivò ad ammettere che Gesù non aveva colpa: «Non trovo nessuna colpa in quest'uomo». Ma lo condannarono perché aveva detto di essere il Cristo, il salvatore, il Figlio di Dio.

L'accusa è fatta con insistenza ma è molto semplice: Gesù solleva il popolo, insegnando per tutta la Giudea, dopo aver cominciato dalla Galilea. È vero che ha cominciato dalla Galilea, è giunto a Gerusalemme, ha insegnato per la Giudea, ma non solleva nessun popolo. Apre i cuori e guarisce i malati. Non è vero che sobilla il popolo, come dicono, non è vero che impedisce di dare il tributo a Cesare. È vero che forse il popolo lo segue come pecore senza pastore che trovano in lui un maestro. Gesù è innocente: nonostante sia innocente va castigato severamente, per dare un po' ragione all'odio dei più. E lo strumento è un vero processo, rapido, ingiusto, ma efficace come la sua condanna.

L'urlo della folla contro di lui pone ancora una domanda. Perché la folla odia chi tanto l'ha amata? Perché tanti non sanno amare chi li ama, e amano chi non li ama? Perché a volte amiamo la nostra schiavitù e non amiamo chi ci ama? Perché non diamo il primo posto nel nostro cuore a colui che ci ama veramente?

 

VII Stazione

La croce di Gesù e di tanti crocifissi

Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirene che veniva dalla campagna e gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù. Lo seguiva una gran folla di popolo e di donne che si battevano il petto e facevano lamenti su di lui. Ma Gesù, voltandosi verso le donne, disse: «Figlio dì Gerusalemme, non piangete su di me. ma piangete su voi stesse e sui vostri figli. Ecco, verranno giorni nei quali si dirà: Beate le sterili e i grembi che non hanno generato e le mammelle che non hanno allattato. Allora cominceranno a dire ai monti: Cadete su di noi! e ai colli: Copriteci! Perché se trattano così il legno verde, che avverrà del legno secco?». Venivano condotti insieme con lui anche due malfattori per essere giustiziati. Quando giunsero al luogo detto Cranio, là crocifissero lui e i due malfattori, uno a destra e l'altro a sinistra. Gesù diceva: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Dopo essersi poi divise le sue vesti, le tirarono a sorte. il popolo stava a vedere, i capi invece lo schernivano dicendo: «Ha salvato gli altri, salvi se stesso, se è il Cristo di Dio, il suo eletto». Anche i soldati lo schernivano, e gli si accostavano per porgergli dell'aceto, e dicevano: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso».
C’era una scritta, sopra il suo capo: Questi è il re dei Giudei.
Uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e anche noi!». Ma l'altro lo rimproverava: «Neanche tu hai timore di Dio e sei dannato alla stessa pena ? Noi giustamente, perché riceviamo il giusto per le nostre azioni, egli invece non ha fatto nulla di male». E aggiunse: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno». Gli rispose: «In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso».
Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio. Il velo del tempio si squarciò nel mezzo. Gesù, gridando a gran voce, disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito». Detto questo spirò.
Visto ciò che era accaduto, il centurione glorificava Dio: «Veramente quest'uomo era giusto». Anche tutte le folle che erano accorse a questo spettacolo, ripensando a quanto era accaduto, se ne tornavano percuotendosi il petto. Tutti i suoi conoscenti assistevano da lontano e così le donne che lo avevano seguito fin dalla Galilea, osservando questi avvenimenti.

(Lc 23, 26-49)

 

Per chi ha il cuore duro, per chi è incattivito nell'odio, nella paura e nell'orgoglio, c'è sempre la speranza di incontrare il Signore Gesù. Gesù non smette mai di parlare, anche nell'ora della sua morte. Gesù vede la scena di quelle donne che si battono il petto e che fanno lamenti su di lui, che forse erano state in mezzo alla folla e forse avevano unito la loro voce a quanti lo condannavano come povera gente che non sa che cosa pensare. Gesù sofferente si rivolge a loro: «Non piangete su di me. Ma piangete su voi stesse e sui vostri figli». E l'invito a cercare quelle lacrime che hanno salvato Pietro. È l'ultima parola mentre lo stanno conducendo via, mentre resta accanto a lui solo un povero disgraziato, Simone di Cirene, uno di campagna che non capisce molto della vita, a cui hanno buttato addosso la sua croce e che deve soffrire, faticare, non si sa perché. Quant'è triste, quant'è ingiusto questo mondo: che i capi lo scherniscano, che i soldati scarichino su di lui la loro frustrazione di esecutori di ordini, in terra straniera, lontani da casa. Quanto è triste che uno che non c'entra niente venga caricato di pesi non suoi! Ma egli si è assunto i carichi di tutti. Ripercorriamo i gesti della crocifissione. Non sanno quello che fanno, ma lo fanno, decisamente, velocemente. Lo conducono via, gli mettono addosso una croce da portare. Lo portano fino al luogo detto Cranio. C'erano anche due malfattori. Infatti Gesù era considerato un malfattore. Lo crocifiggono fra due malfattori, uno a destra, l'altro a sinistra.

Non sapevano quello che facevano: distruggevano la speranza del mondo, uccidevano colui che era venuto a salvare, a parlare del Vangelo, colui che era venuto ad aiutare gli uomini, a liberare i prigionieri, a rispondere alla preghiera di tanti, a curare i malati. Non sapevano quello che facevano, eppure lo facevano con grande decisione. Lo facevano perché avevano scelto di non ascoltarlo, di andare avanti violentemente sulla loro strada.

Sembrava il naufragio della sua missione con la fine sulla croce. Tra le ultime parole di Gesù c'è una preghiera: «Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno». Gesù prega il Padre perché solo il Padre può perdonare la stupidità e la violenza con cui uccidono chi li ama. Lo crocifissero fuori di Gerusalemme, tra due malfattori, in un luogo detto Cranio. Fu annoverato tra i malfattori. La sorte di quest'uomo buono, che amava tutti, fu quella di un brigante, di un malfattore. Mentre i re e i capi delle nazioni si fanno chiamare benefattori, mentre la folla dice la sua simpatia e la sua solidarietà per Barabba, Gesù è considerato come un poco di buono. Di lui sta scritto: «Egli ha fatto bene tutte le cose». Ma per questo è stato crocifisso e il suo nome deve essere cancellato dalla terra degli uomini.

La sua è una fine tragica, triste e dolorosa, fine da povero, da condannato, da perseguitato, sulla croce tra due banditi, forse due assassini. È la fine del Vangelo, dell'avventura di Gesù con gli uomini, del grande sogno di un mondo diverso? Ma intanto con le ultime forze, Gesù pregava il Padre. Ci sono alcune parole che colpiscono: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno». Colpiscono un innocente e non sanno quello che fanno. Anche gli assassini del Figlio di Dio possono essere perdonati. Se possono essere perdonati gli assassini del Figlio di Dio, ogni assassino, ogni delinquente, piccolo o grande, ogni peccatore può essere perdonato.

Anche noi. Anche noi dobbiamo perdonare gli altri e dobbiamo far sì che il perdono cresca nel cuore di tanti. Il perdono non è un regalo che si fa agli altri. È un Vangelo, il Vangelo di riconciliazione perché non si muoia più in questo modo. Gesù dice: «Perdonali, non sanno quello che fanno». Bisogna perdonare perché questa violenza non si scateni più così.

Le ultime parole di Gesù sono le parole di chi si affida al Padre: sembrano le ultime parole ma sono l'inizio di una vita nuova. Sono dette dopo un sì e dopo un no. Il no è al Vangelo di questo mondo:

«Salva te stesso». No - dice il Signore. È un no detto con il suo silenzio.

Il sì è al dolore di questo mondo, a uno dei malfattori che gli chiede: «Ricordati di me». L'ultimo respiro è per rispondere sì a uno di questi malfattori: «In verità ti dico, oggi sarai con me in paradiso». E poi nel grande buio, da mezzogiorno alle tre. Gesù disse: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito».

Questa scena turbò molti: turbò il centurione, i conoscenti e il popolo che se ne tornavano a casa. Questa scena del Vangelo continua a turbare. Detto questo spirò. Pensavano che fosse finito e di averla fatta finita. Lo avevano temuto, avevano voluto ucciderlo, ma non avevano capito chi fosse. La proposta che gli fanno è il contrario di tutta la sua vita, («salva tè stesso»), il contrario di tutte le sue parole, di tutta la sua vita fino agli ultimi momenti a Gerusalemme, fino a quegli ultimi momenti che noi abbiamo seguito: «Ha salvato gli altri, salvi se stesso» - gli dicono. Gesù non salva se stesso. E venuto a salvare gli altri. Dio lo salverà, ma lui non difende se stesso.

Se gli uomini, le donne, se noi non impareremo a non cercare di salvare noi stessi a ogni costo, ci saranno sempre tanti crocifissi, tanti torturati, ci sarà sempre una grande miseria e tanto peccato.

Se ognuno non imparerà a non amare la propria vita in maniera violenta e spasmodica, con tutte le proprie forze, sarà infelice e renderà gli altri infelici. Se gli uomini non impareranno a non amare se stessi al di sopra di ogni cosa, resteranno sempre prigionieri in questo amore che è fonte di dolore per gli altri e per sé. Bisogna lasciarsi salvare! Gesù resta sulla croce e forse qualcuno, vedendolo, cominciando ad ascoltare il Vangelo, può capire come ha ben compreso il ladro «teologo», quel malfattore crocifisso, che dice: «Signore, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno».

Forse qualcuno vedendo questo crocifisso che non salva la propria vita può cominciare a capire. Come quel centurione che vedendo quel morto disse: «Veramente quest'uomo era giusto». Ci fu qualcuno, tra le folle che erano accorse, che si mise a ripensare a quello che era accaduto e ripensando capì. Intanto i suoi conoscenti e le donne assistevano da lontano all'avvenimento della morte del Signore Gesù sopra la croce, alla morte di un uomo che non voleva salvare se stesso.

 

VIII Stazione

Dalla compassione, il dono di un futuro

C'era un uomo di nome Giuseppe, membro del sinedrio, persona buona e giusta. Non aveva aderito alla decisione e all'operato degli altri. Egli era di Arimatea, una città dei Giudei, e aspettava il regno di Dio, Si presentò a Pilato e chiese il corpo di Gesù. Lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo e lo depose in una tomba scavata nella roccia, nella quale nessuno era stato ancora deposto. Era il giorno della Parascève e già splendevano le luci del sabato. Le donne che erano venute con Gesù dalla Galilea seguivano Giuseppe; esse osservarono la tomba e come era stato deposto il corpo di Gesù, poi tornarono indietro e prepararono aromi e oli profumati. Il giorno di sabato osservarono il riposo secondo il comandamento.
(Lc 23,50-56)

C'è qualcuno che si avvicina a Gesù quando è morto. Diremmo che è troppo tardi quando si fa vicino al suo corpo spento.

E Giuseppe di Arimatea, assieme ad alcune donne. Chiesero il corpo di Gesù. Giuseppe di Arimatea lo calò dalla croce, lo avvolse in un lenzuolo, lo depose in una tomba nuova, scavata nella roccia. In questa tomba non era ancora stato deposto nessuno. Era il giorno prima del sabato. Perché restavano lì? Giuseppe di Arimatea aspettava il regno di Dio. Forse Giuseppe e le donne si ricordavano della sua parola, di qualche sua parola e aspettavano qualche cosa.

Ma che cosa ci si può aspettare da un morto? Che cosa ci si può aspettare da un vinto? Che cosa ci si può aspettare da un uomo che non è stato capace di salvare nemmeno se stesso? Niente, quasi niente, direbbero tutti. Eppure la vita nuova, la salvezza, viene da questo corpo morto, da questo corpo crocifisso.

Alcuni se ne tornarono a casa, soddisfatti di aver vinto. Alcuni se ne tornarono a casa contenti dopo averlo schernito. Altri ripensavano a quello che era accaduto. Ma alcuni si fecero vicino a questo corpo morto, fecero quello che potevano fare, cioè quasi più nulla. Un lenzuolo per un morto e una tomba, un po' di aromi non si negano a nessuno. Non si nega a nessuno la tomba. Ma la tomba vuoi dire anche fine, morte, che niente è più possibile.

Una persona buona e giusta non aderì alla decisione di uccidere Gesù: da questa non adesione nacque un atto di compassione verso il morto, calato dalla croce, avvolto in un lenzuolo e deposto in una tomba in cui non era stato seppellito nessuno. Dal rifiuto della condanna nacque la pietà delle donne venute dalla Galilea, che seguivano Giuseppe con il corpo di Gesù e che tornarono indietro per preparare aromi e oli profumati.

Davanti al sepolcro, davanti al dolore di questo mondo, alla morte, al sonno dei discepoli, alle grandi pianure di sofferenza e di morte, alla violenza pazza resta la fede nelle parole di Gesù che si è affidato al Padre. «Già splendevano le luci del sabato»: non erano forse solo quelle di una città che si preparava al grande giorno del riposo, ma anche quelle di un'ora nuova, di un giorno nuovo. Davanti alle pianure del dolore, al sepolcro e ai sepolcri, chi non aderisce alla decisione di uccidere non è chiamato solo a piangere, ma a credere, pregare, a sperare in un'ora diversa.

Le parole della preghiera, certo, sono poche, difficili in un cuore frastornato, poco capace di interrogarsi o di ascoltare. Ma il Signore ha insegnato ai suoi a pregare. La memoria delle parole del dolore del Signore accompagni il cammino, le giornate, la preghiera, l'interrogarsi, verso il giorno della Resurrezione.