Il sogno di sentirsi "normali"

Viaggio fra una popolazione dimenticata: i rom non più nomadi

Il viaggio nel mondo di rom, sinti e camminanti prosegue con le testimonianze di chi si è affrancato dalla vita nei campi e ha posto fine a un lungo percorso di emarginazione. Anche se le cose non sono così semplici. Neanche per chi è italiano a tutti gli effetti e "integrato" lo è sempre stato.
Casa è casa
Ela, 43 anni, è nata a Roma da genitori bosniaci, come i suoi sette fratelli. Il suo primo campo era situato nella zona di Cinecittà. «Non si stava bene - racconta - non c'era la corrente e per avere la luce usavamo le candele. Era pericoloso. Alcune baracche si sono incendiate. Un mio zio è morto così. L'acqua la dovevamo prendere alla fontanella. Noi siamo sempre andati a scuola e mia madre, ogni mattina, riscaldava l'acqua e ci faceva il bagno. Voleva che fossimo puliti per evitare che ci emarginassero, ma questo non bastava per renderci uguali agli altri. I miei compagni non giocavano con me e io ero sempre sola. Anche la maestra non si interessava a me, mi faceva solo disegnare e non mi insegnava nulla, così io ho imparato a leggere e a scrivere non a scuola ma ai corsi organizzati dalla Comunità di sant'Egidio
, quelli che oggi si chiamano Scuole della pace.
Dopo una decina di anni, siamo andati al campo della Barbuta, dove avevamo una roulotte e la corrente. A 17 anni mi sono sposata con Ceciliano. Siamo andati a vivere alla Monachina, dove siamo rimasti per 16 anni e dove sono nati i nostri sei figli. Una pietà! Vivevamo in una baracca dove non c'era l'elettricità e per prendere l'acqua dovevamo attraversare una strada. Era molto scomodo e anche rischioso. Pure questa volta ci ha pensato sant'Egidio,
 che ha fatto di tutto per far mettere una fontanella proprio fuori dal campo, rendendoci le operazioni un po' più facili. Per vivere, raccoglievamo il ferro vecchio e lo rivendevamo. I miei figli sono sempre andati a scuola, dall'asilo in poi. Per me è importante che abbiano un'istruzione perché non siano diversi dagli altri. Io ho avuto un`esperienza brutta e per loro voglio qualcosa di diverso. Anche se i pregiudizi sono duri a morire.
Al supermercato è successo che una donna, stringendo a sé la figlia, ha detto: "Sta' attenta, ci sono gli zingari". Così, se possiamo, nascondiamo la nostra identità. Quando vado a fare le pulizie dico che sono croata. E anche Perla, la mia figlia più grande, quando lavorava come cameriera in un ristorante di Trastevere diceva la stessa cosa».
Nove anni fa, per Ela e la sua famiglia c'è stata la svolta. «Una brava persona, che ci conosceva da anni, ci ha venduto una casetta. Dato che non potevamo prendere un mutuo, ha messo un'ipoteca sull'immobile per trenta anni in modo che, se non paghiamo, se la riprende. Quando siamo venuti a vivere qui è stata una festa. Casa è casa! Quando l'ho vista, ho pensato: "Gesù, fa' che tutti i rom trovino una casa". Anche i miei figli più grandi, che hanno vissuto nei campi e vedono la differenza, sono felici, e si sono ambientati subito nel quartiere. I vicini sono bravi, sanno che siamo rom ma vedono che siamo gente tranquilla, che andiamo a lavorare tutte le mattine.
E' vero, alcuni vanno a rubare ma non bisogna giudicare male tutti. Non si deve fare di tutta un'erba un fascio. Io e mio marito continuiamo a raccogliere il ferro e, quando capita, puliamo cantine e facciamo traslochi. È l'unica cosa che possiamo fare, il lavoro a noi non ce lo danno. Sto sperando che mi prendano all'Ama, così non vado più a spaccarmi la schiena ogni giorno. Ora però ti devo lasciare, devo portare i bambini alla Scuola della pace».
La gente che vive sotto le stelle
Walter Tanoni, 52 anni, è sinto di origini piemontesi. I sinti, come i rom, hanno origine nelle regioni nord occidentali dell'India, che hanno lasciato all'inizio dell'XI secolo. In Europa, e in Italia, sono arrivati intorno al 1400. Tradizionalmente, i Sinti, chiamati "zingari italiani", esercitano l'attività del giostrato e del circense. Come Moira Orfei, per citare una dei rappresentanti dell'arte circense italiana più celebri.
Anche Walter, operatore dello "spettacolo viaggiante", come una legge del `68 ha ribattezzato il lavoro dei giostrai, è famoso nel suo piccolo. «A Roma mi conoscono tutti», dice orgoglioso. «Sono trent'anni che ci lavoro. Giravo per la città, ora, invece, ho una postazione fissa vicino a San Basilio, sulla Tiburtina». Giostrine, tappeti elastici, gonfiabili, macchinette, un vero Luna Park.
«Prima di fermarmi a Roma, lavoravo in tutta Italia», racconta Walter, che è responsabile nazionale dei Sinti giostrai e presidente della sezione Opera Nomadi Bruno Nicolini del Lazio, dal nome del sacerdote che ha fondato l'organizzazione nel 1963 per favorire l'integrazione delle minoranze rom, sinte e camminanti nella società italiana. Poi ha venduto la sua roulotte di nove metri, dotata di tutti i comfort, ed è andato a vivere in una casa di mattoni con la compagna e i suoi quattro figli.
«Sono un figlio d'arte. Anche i miei avi e i miei genitori facevano i giostrai. Un tempo si girava con le carovane e si dormiva sotto le stelle. È un bel lavoro, portiamo divertimento, ma non è tutto rosa e fiori. Se piove e fa freddo si rallenta. E poi ci sono gli eventi straordinari, come l'emergenza sanitaria di questo periodo. Durante il lockdown siamo stati completamente fermi. Ora abbiamo ripreso, ma il guadagno è comunque limitato. La concorrenza si è fatta più forte».
I sinti lamentano la mancanza di tutela della Legge 337/1968, che, come si diceva, regolamenta l'attività dei circhi equestri e dello spettacolo viaggiante. «Prima era possibile prendere la licenza solo se continuavi la tradizione di famiglia o se avevi lavorato per almeno cinque anni presso un giostraio»„ spiega Walter. «Ora basta prendere un capannone e metterci dentro qualche gioco per avere il titolo. A discapito della professionalità e della sicurezza. In questi "parchi giochi" improvvisati, normalmente si fanno entrare più persone del consentito e può capitare che si verifichino incidenti. Io sono nato in mezzo alle giostre, sono elettricista, pittore, meccanico, fabbro, controllo ogni movimento e riesco a prevedere il pericolo».
Anche gli ex giostrai hanno le loro rivendicazioni, chiedono isole ecologiche specifiche per esercitare l'attività di operai rottamatori. «A noi non ci aiuta nessuno», afferma Walter. «La comunità europea destina fondi per rom, sinti e camminanti ma i soldi vanno quasi tutti agli stranieri, a noi arriva poco perché siamo italiani. Durante il lockdown, il Comune di Roma non ci ha dato neanche i buoni pasto. Per fortuna ci ha pensato la Caritas, tramite l'Opera Nomadi, sennò non avremmo saputo come fare». Walter non è sposato ma sta con la stessa donna da trentasei anni. «Il legame con una persona è l'amore non il pezzo di carta. Siamo sposati davanti a Cristo. E abbiamo una bella famiglia. Lo sai che sono nonno di cinque nipoti?"
L'importanza di essere normali
Mira, 40 anni, è di origine bosniaca ma non lo dice. Ha paura di perdere il lavoro. «Lavoravo da un signore che mi parlava sempre male dei rom. Quando andavo via mi diceva: "Mira, stai attenta agli zingari che rubano". Io mi mordevo la lingua per non rispondere. Non sai quanto ho dovuto ingoiare. A raccontarlo può far sorridere ma quando lo vivi sulla tua pelle è diverso». Ora, la donna lavora in una cooperativa di pulizie ma neanche
qui sanno chi è. «Non puoi immaginare quanti rom lavorano nelle cooperative, negli ospedali, nei ristoranti, senza che nessuno lo sappia».
Mira ha vissuto per tanto tempo in un campo a Tor Bella Monaca dove non c'era l'acqua, non c'era la corrente e, per cucinare, si usavano le bombole del gas. «I bagni, lasciamo stare. I miei figli sono nati lì e li ho sempre mandati a scuola. Per lavarli, riscaldavo l'acqua che prendevo alle fontanelle in modo che andassero sempre puliti». Da quattro anni, Mira ha una casa popolare nella periferia nord della città. Vive con il marito e i tre figli, che vanno tutti a scuola. «Le discriminazioni ci sono state ma i professori ci hanno aiutato molto. La scuola conta tanto", dice. «Ringrazio Dio per aver ottenuto una casa. Mio marito è muratore, fa traslochi, quello che capita. Ringraziando Dio si vive, se hai un tetto riesci a cambiare la tua vita e quella dei tuoi figli. I campi non dovrebbero esistere e bisognerebbe dare l'opportunità di un lavoro a tutti. Nessuna persona rifiuterebbe. Certo, ci sono quelli cattivi, ma se li si aiuta, se non li si discrimina, si riesce a farli integrare. Sai cosa è brutto? Che la gente va nell'impatto, ti giudica male prima ancora di conoscerti». Così si cerca di mimetizzarsi. «A me nessuno direbbe mai che sono una rom. Una volta, in chiesa c'erano degli zingari e una signora mi ha chiesto di guardarle la borsa mentre andava a fare la comunione. Aveva paura che gliela rubassero», racconta Mira, che fa volontariato alla mensa di sant'Egidio. 
«La comunità ci ha aiutato tanto. Matteo Zuppi (l'arcivescovo di Bologna che ha cominciato la sua attività a sant'Egidio, ndr) l'ho conosciuto da ragazzina. Ora sono felice, ho un tetto, un lavoro... Lo sai qual è il bello della vita? Dimostrare di essere diverso da come uno crede. Bisognerebbe vedere, capire, prima di giudicare. A chi non mi conosce evito di dire la mia provenienza, ma con chi lo sa mi sento aperta e libera di essere come sono. Bisogna abbattere le barriere, se lo facciamo insieme ci riusciamo. E allora non ti guarderebbero più con sospetto ma come una persona normale. E non sai quanto è bello essere normale».


[ Marina Piccone ]