«Per la prima volta mi sembra di avere una vita normale. Ora i miei amici hanno paura».

«Per la prima volta mi sembra di avere una vita normale. Ora i miei amici hanno paura».

La studentessa 23enne hazara a maggio è stata accolta dalla comunità Sant’Egidio a Milano, con la madre e i due fratelli

Se non avesse affrontato sei mesi di viaggio e due anni di «prigionia» in un campo profughi, Najma sarebbe ancora a Kabul. E se fosse ancora a Kabul dovrebbe abbandonare il sogno di finire l’università e diventare scrittrice. Come minimo. Perché Najma, come la madre e i due fratelli che con lei oggi vivono a Milano sotto la protezione della Comunità Sant’Egidio, è di etnia hazara. Abituata a convivere con persecuzione e paura. Al sicuro a Milano dopo tre anni di patimenti, è lei, oggi 23enne, a fare coraggio alle compagne di università e ai famigliari che chiamano dall’Afghanistan.

Qual è la situazione dei suoi famigliari e dei suoi conoscenti a Kabul?
«Ci sentiamo quasi ogni giorno. Mia madre comunica con i parenti, io con i miei amici di università. Sono terrorizzati. Ci chiedono di farli venire in Italia. La situazione è drammatica e non sanno come uscire. La mia migliore amica ha un fratello che faceva l’aviatore nell’esercito regolare e una sorella che lavora al parlamento. Sono possibili bersagli».

I Talebani hanno assicurato che non compiranno vendette. È credibile?

«No, stanno cercando di apparire diversi di fronte alla comunità internazionale. Una volta svanita l’attenzione mostreranno il loro vero volto, quello di sempre: un modello di società arretrato di centinaia di anni, violenza, condizione degradante per la donna».

Ha qualche ricordo della guerra?
«No, allora ero troppo piccola. Ma nonni, famigliari, conoscenti mi hanno raccontato cose terribili di ciò che facevano i talebani».

Com’era la sua vita a Kabul?
«Andavo all’università. Studiavo spagnolo e lettere. Sognavo di diventare giornalista, o scrittrice. Come Oriana Fallaci».

Conosce la Fallaci?
«Ho letto dei suoi libri tradotti in “dari” (il persiano antico parlato dagli hazara, ndr). “Lettera a un bambino mai nato”, commovente. E “Niente e così sia”. Mi ha fatto capire il coraggio e la forza di questa donna».

Perché siete fuggiti?
«Per gravi problemi famigliari. E per noi hazara, la sensazione continua di poter essere esposti ad attentati».

Cosa ricorda del viaggio?
«Terribile. Marce interminabili attraverso le montagne, alla ricerca di un varco per l’Iran, in fila dietro agli “human trafficker”. Il rischio di essere respinti, o presi, alla frontiera. Abbiamo impiegato, credo, sei mesi per arrivare al mare ed essere imbarcati per la Grecia».

E a Lesbo?
«Un anno e undici mesi durissimi. Stavo a Moria, poi il campo bruciò e ci trasferirono. Hai la sensazione del tempo che scivola via senza speranza attraverso procedure lunghissime. Rischi di perderti. Mi hanno aiutato tanto mia mamma e una ragazza volontaria della Sant’Egidio, tedesca. Ora siamo amiche».

Dalla Grecia all’Italia attraverso uno dei corridoi umanitari aperti dalla comunità, Najma e la sua famiglia sono arrivati a Milano il 17 maggio scorso. Il loro viaggio da Kabul era iniziato a fine 2018. A Lesbo, il campo più grande d’Europa, dei 4.200 profughi il 45 per cento è afghano. La Sant’Egidio ha già avanzato varie proposte, per evitare che la situazione peggiori: sospendere tutte le espulsioni già decretate dai Paesi europei, superare il criterio di inammissibilità derivante dal principio del Paese terzo sicuro (la Turchia) applicato in Grecia per i cittadini afghani, riesaminare le domande rigettate.

Najma, a Milano come va?
«Per la prima volta dormo con la sensazione di avere una vita normale. Studio italiano, sto cominciando ad avere amicizie. Milano mi piace, l’ho visitata qualche giorno fa. Mia sorella si iscriverà al liceo artistico, io vorrei riprendere l’università. E diventare una scrittrice».
 


[ Francesco Gastaldi ]