Corridoi umanitari per i profughi di guerra: storie di riscatto sbocciate a Trieste

Corridoi umanitari per i profughi di guerra: storie di riscatto sbocciate a Trieste

Rendere più forte il principio dell’accoglienza, sfruttando canali legali e modellati sulle necessità di ogni singolo caso. È quanto ci si propone di fare con i Corridoi umanitari, progetti autofinanziati e realizzati dalla Comunità di Sant’Egidio, insieme alla Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia, la Tavola Valdese e la Cei-Caritas. L’Italia è stato il primo Paese ad adottare in Europa il sistema. E Trieste è tra le 80 città ad aver inaugurato questo modello di accoglienza, ormai più di tre anni fa: «La famiglia che abbiamo accolto nella primavera del 2017 viene dalla Siria – racconta Isabella D’Eliso, responsabile del dossier per la Comunità di Sant’Egidio qui a Trieste- . Uno dei maggiori vantaggi dei Corridoi umanitari è che, prima dell’arrivo di qualunque nucleo familiare dall’estero, viene portata avanti una preparazione che riguarda tutte le persone che avranno a che fare con l’integrazione. In questo modo c’è una predisposizione immediata a ricevere le famiglie, ad aiutarle a superare i traumi che si portano sulle spalle». Così è stato anche a Trieste dove, grazie ai Corridoi umanitari, si è preparato un terreno adeguato per l’arrivo di un giovane non ancora ventenne, George, i suoi genitori Jehad e Joumana e suo zio Adham. Scappati dalla loro città Latakia per raggiungere i campi profughi del Libano dove sono rimasti per quattro mesi, George e la sua famiglia sono atterrati all’aeroporto di Fiumicino il 27 aprile del 2017. In quel giorno hanno messo fine a un viaggio sicuro e legale, affrontato al riparo dal così frequente rischio di finire nelle mani di trafficanti di uomini. «C’è stato uno studio approfondito della loro storia. Ed è proprio questa conoscenza meticolosa a facilitare il lavoro di tutti i soggetti coinvolti. È fondamentale il fatto che arrivino e ci sia già una sistemazione per loro. Inoltre i volontari della Comunità sanno già come saranno suddivisi i compiti, chi si occuperà delle prime necessità, chi dovrà affrontare problemi di salute nel caso ci siano, chi della questione della lingua italiana». Lo status di profughi di guerra che caratterizza George e i suoi parenti è ciò che li ha resi “idonei” ad accedere al programma, che viene appunto riservato a persone che si trovano in “condizioni di vulnerabilità” (si fa riferimento, per esempio, oltre che a vittime di persecuzioni, torture e violenze, anche famiglie con bambini, anziani, malati, persone con disabilità). L’individuazione dei nuclei che necessitano con più urgenza di aiuto avviene attraverso contatti diretti nei paesi interessati tra le associazioni e attori locali, come Ong, organismi internazionali o chiese, che stendono una lista di potenziali beneficiari. Ogni segnalazione viene verificata prima dai principali responsabili delle associazioni e poi dalle autorità. Ma l’arrivo in Italia non rappresenta la fine del percorso. È, piuttosto, il punto di partenza di un altro lungo viaggio sociale. «Un aspetto che è importante sottolineare qui a Trieste è che chi è arrivato attraverso questo canale viene poi stimolato a mantenere un rapporto di solidarietà reciproca – continua D’Eliso -. La famiglia ha cominciato a fare volontariato, ad aiutare malati o anziani con il trasporto della spesa. Adesso che tutti i componenti se la cavano meglio con l’italiano danno una mano al centro di solidarietà, il ragazzo collabora col doposcuola. Sono tutte fasi che rientro in un più ampio processo di integrazione». L’accoglienza in questo modo non è un processo a tempo determinato, che si esaurisce a pochi mesi dall’arrivo della famiglia nella città ospitante. Ma prende la forma di un cammino strutturato, in cui la famiglia non viene mai lasciata sola nell’affrontare i dilemmi e le complessità rappresentate da un posto nuovo.

Sulla cartina geografica della Siria, Latakia ha l’aspetto di un imponente agglomerato urbano che, come Trieste, riposa su una distesa di mare. «Appena siamo arrivati qui ci siamo accorti che, per molti aspetti, questa città assomiglia tanto al posto da dove veniamo. Così, anche se Latakia è lontana migliaia di chilometri, le somiglianze ci aiutano a sentirla più vicina». Jehad e Joumana, i coniugi Farwe, sono arrivati in Italia nel 2017, con il primo Corridoio umanitario inaugurato a Trieste. Il progetto di accoglienza diffuso in tutta Europa e pensato per favorire un’integrazione più radicata nella società ha permesso loro di ripensare il loro futuro, al di fuori di un’area devastata dal conflitto. «Non avevamo mai sentito il nome di Trieste prima. E nel lungo viaggio fino a qui siamo stati male, il futuro ci faceva paura. Ogni timore è svanito quando siamo scesi dal treno e abbiamo trovato i volontari della Comunità di Sant’Egidio ad aspettarci». Nel parlare moglie e marito si completano le frasi a vicenda, come se il pensiero di uno fosse il prolungamento di quello dell’altra. Raccontano del loro trascorso cimentandosi nei nuovi suoni della lingua italiana e quando le frasi si ingarbugliano, interviene in soccorso il figlio George, di 19 anni, che li aiuta e li corregge con pazienza. E che non avverto la mancanza per la sua città: «Come posso avere nostalgia di un luogo in cui ormai non ho più nulla? Tutti gli amici che avevo se ne sono andati o sono stati uccisi». Il suo italiano è quasi perfetto, arricchito da certi intercalari triestini che sarebbe impossibile trovare in un libro di grammatica. «Quando ero là, perfino l’istituto in cui facevo un corso di robotica è stato bombardato. In casa avevamo cominciato a dormire in bagno perché la paura era troppa, mi è anche capitato di essere preso in ostaggio. Quello è stato il momento in cui abbiamo deciso di andarcene». A premere è stato un loro amico prete, che più di tutti ha insistito su quanto ormai la situazione fosse difficile. «Eppure io non volevo andarmene – sottolinea Jehad, commercialista, che a Latakia lavorava nel settore transito nel porto della città. E che ha finito per ricoprire la stessa mansione anche qui, a Trieste – Scappare mi sembrava una responsabilità troppo grande verso mia moglie e mio figlio. Ma un certo punto, il pericolo di restare è diventato più grande del pericolo di andarsene. Noi siamo cristiani. La vita era terribile per tutti. Ma per le minoranze religiose lo era anche di più». Accanto a lui, sul divano di casa, Joumana annuisce con convinzione. Anche se lei non riesce a fare a meno di chiedersi ogni giorno cosa ne sia stato dei suoi colleghi e dei suoi pazienti: «Ho una laurea in psichiatria, quello era il mio ambito. Qui ho tanti amici che mi fanno stare bene, faccio volontariato, lavoro nell’assistenza domestica. Ma un giorno mi piacerebbe tornare in Siria, sapere cosa ne è stato delle persone che ho a cuore».
 


 


[ Linda Caglioni ]