Combattere la pena di morte per non perdere l'umanità

Battaglia contro la paura

Il 30 novembre è la giornata mondiale delle città per la vita. La data ricorda il giorno in cui nel 1786 il Granducato di Toscana abolì la pena capitale, primo stato a farlo nella storia. Grazie al noto scritto Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria si determinò una corrente di pensiero che in Toscana giunse a ripudiare la pena di morte come strumento di giustizia. Da quel momento inizia il lungo processo per l'abolizione giunto ora a coinvolgere la gran maggioranza dei paesi del mondo: 114 stati l'hanno abolita (8 solo per i reati comuni).
Alcuni fra gli abolizionisti, tra cui l'Italia, si sono fatti promotori della campagna mondiale per la moratoria della pena capitale, primo passo in vista dell'abolizione. Hanno presentato all'Assemblea generale delle Nazioni unite una risoluzione in questo senso, e viene permanentemente rinnovata ogni due anni.
Molti stati stanno riflettendo sull'abolizione e ciò ha prodotto 28 abolizionisti de facto: sono quei paesi che non applicano la pena da tempo (talvolta da decenni) e de facto o de jure sono in moratoria. Nel corso del tempo, in particolare dal 2007, la lista dei mantenitori si è ridotta. I paesi dell'Unione europea rappresentano l'avanguardia della battaglia per l'abolizione: per aderire all'Ue infatti occorre abolire la pena capitale.
Se l'Europa è il primo continente senza pena di morte, l'Africa potrebbe divenire il secondo, soprattutto se si guarda alla sua parte subsahariana.
Il dibattito in seno all'Onu è molto acceso: ciò è dovuto anche al fatto che tra i mantenitori vi sono paesi influenti come Stati Uniti, Cina, Giappone, India, Nigeria, Iran, Pakistan o i paesi arabo-islamici. Tuttavia la spinta degli abolizionisti ottiene successi anche tra questi ultimi, come si osserva dal sempre maggior numero degli stati americani che aboliscono la pena o dalla riduzione che la Cina ha recentemente fatto dei reati punibili con la pena capitale.
In controtendenza
«Non si può insegnare a un popolo a ripudiare l'omicidio, se lo stato stesso ne fa uso», scriveva il Beccaria. Abolire rappresenta un segnale in controtendenza con lo spirito del tempo presente. Nel mondo attuale, attraversato da passioni e da violente emozioni, tutti gli aspetti della vita quotidiana sono coinvolti, anche la giustizia, la sicurezza e le pene. Come accade in politica, le percezioni su giustizia e sicurezza sono attraversate da ondate emozionali. Processi spettacolarizzati, avvocati come star televisive, accesi dibattiti sulle sentenze, percezioni di insicurezza slegate dalla realtà dei dati: il bisogno di sicurezza appare una nuova medicina davanti allo spaesamento e alla paura.
Prevale emotivamente una cultura della punizione. Il dibattito sulla pena di morte soffre di simili parossismi e qualcuno prova a rievocarla. Così come la guerra torna ad essere popolare, anche la pena di morte rischia la stessa deriva. Terrorismo, guerre incessanti e reti criminali globali riecheggiano una diffusione sempre più ampia delle condanne a morte extragiudiziali, cioè non ufficiali. Gli stati non sono gli unici detentori del monopolio della violenza: ci sono anche le mafie e i terrorismi che in certi territori vogliono "farsi stato". Nell'incertezza torna un'idea di retribuzione simile a quella favorevole alla pena capitale.
Il jihadismo contemporaneo manipola tale ragionamento tentando di convincere il mondo islamico che la sua cruenta battaglia rappresenta la legittima retribuzione per i torti subiti. Papa Francesco l'ha dichiarata sempre inammissibile (come la guerra) ma la pena di morte e la mentalità che l'accompagna rischiano di tornare in maniera ambigua, incentivate dalla paura del terrorismo. I returnees (i foreign fighters di ritorno) incutono un terrore tale da far sembrare accettabile il venire meno di un principio fondamentale della nostra civiltà. Il terrorismo dell'Isis - pur sconfitto - ci sta forse contagiando, lasciando in eredità qualcosa di orrendo che non ci appartiene?
Paura e difesa dell'identità
Guerre senza nome e senza senso a cavallo tra paura e estrema difesa dell'identità, funestano il nostro mondo e nessuno se ne scandalizza più tanto. Condannare a morte intere città non ha provocato forti manifestazioni di sdegno, il never again di un tempo. L'uomo del presente è schiacciato dalle proprie preoccupazioni e si arrabbia solo per sé stesso. Davanti alla  vendetta dei «dannati della terra», si invocano soluzioni armate: un'idea micidiale di reciprocità. Quasi nessuno dice apertamente di volere la guerra ma si seminano dappertutto le sue premesse: discorsi d'odio, insulti, ricerca del nemico, stigmatizzazioni. Dal sottosuolo dei peggiori sentimenti riemerge un sentimento di vendetta e ritorsione: occhio per occhio.
L'inasprimento generalizzato delle politiche poliziesche, giudiziarie e penitenziarie che si osserva attualmente risente di una trasformazione del carattere giudiziario degli stati, decuplicandone la rete penale dappertutto. È in atto una svolta punitiva in tutte le civiltà. Se qualche anno fa ad esempio il fatto che le carceri in Italia fossero sovraccariche creava almeno disagio nella pubblica amministrazione, oggi alcuni politici se ne fanno vanto.
Allo stesso modo in molti paesi le migrazioni e il Covid hanno provocato l'instaurarsi di una gestione dell'insicurezza sociale che tende a dimenticare o addirittura a criminalizzare la povertà. Nell'era del lavoro frammentario e discontinuo e della crisi del welfare, la regolamentazione della vita quotidiana non passa più attraverso la figura materna e disponibile dello stato-previdenza ma si poggia su quella virile e autoritaria dello stato-giudice e sulla cultura del merito e della punizione.
Lo notiamo con l'aumento vertiginoso della popolazione carceraria in certi paesi o con la privatizzazione delle carceri in atto in altri. Lo osserviamo nelle annose polemiche tra sanità pubblica e privata. Si istituzionalizza il divergente, lo si isola perché non "produttivo": quindi non vale la pena occuparsene.
I muri necessari
La gestione politica degli eventi è divenuta la gestione degli stati d'animo. La maggioranza dei cittadini si adegua se le istituzioni o i leader divengono più aggressivi, la gente segue. D'altra parte nella
globalizzazione tutti sono più soli (in occidente anche più vecchi) e reagiscono in maniera allarmata. I muri sono il risultato di tale necessità rabbiosamente espressa o difesa.
Si murano le frontiere, le vie di uscita o di entrata, si dividono le città, si separano i quartieri e ciascuno va all'ossessiva ricerca di quelli uguali a sé, che paiono più rassicuranti. Allo stesso tempo, si abbandona l'idea della riabilitazione in carcere o dei diritti umani per tutti. Figlie di un clima punitivo, emergono le culture del sospetto, del complotto, dell'interminabile ricerca di sicurezza.
In tale clima ci si potrebbe chiedere perché insistere nuovamente sulla pena di morte. Davanti al terrorismo non sarebbe il caso di parlare d'altro? Perseverare contro la pena di morte è invece il modo per opporsi ad ogni cultura di morte, sia essa istituzionale che non. È un modo per contrastare ogni scorciatoia punitiva e per riaffermare quanto la pena capitale rappresenti la disumanizzazione a cui resistere. Si tratta infatti di una pena irreversibile che assomiglia troppo alla vendetta perché basata sulla reciprocità con il male. La nostra civiltà del diritto non può cedere alla tesi della legittimità della ritorsione.
La giornata mondiale delle città per la vita è un`iniziativa della Comunità di Sant'Egidio in alleanza con molte realtà associative che lottano contro la pane di morte nei paesi mantenitori, nei corridoi della morte e nelle carceri di tutti i continenti. Nella serata del 30 novembre le città aderenti (ad oggi 2.363) sono invitate ad illuminare un monumento significativo della propria storia. A Roma viene tradizionalmente illuminato il Colosseo, un tempo teatro delle condanne a morte. Quest'anno sarà illuminato anche il parlamento europeo. La scelta delle città permette di coinvolgere amministrazione comunali degli Stati mantenitori. È un gesto simbolico che accompagna il lavoro diplomatico e di dialogo nei confronti degli stati mantenitori per affermare ovun
que la cultura della vita.


[ Mario Giro ]