"Ecco gli italiani che hanno aperto le porte"

Mario Marazziti, storico portavoce di Sant'Egidio, racconta nel suo volume le testimonianze dei tanti "eroi quotidiani" dal cuore grande
Da Genova a Gubbio, da Urbino a Palermo le esperienze di accoglienza diffusa e integrazione di profughi giunti in Italia attraverso i corridoi umanitari

C'è un'Italia che non ha paura, che non odia, che non crea barricate. È quella che non si rassegna e trova ostinatamente nell'amore un'alternativa alle morti in mare di Lampedusa e ai cadaveri nel tir dell'orrore di Londra della cronaca recente. A Lucca, Emilia, un'anziana di 80 anni, invece di arrotondare la pensione affittando la sua seconda casa, la mette a disposizione di una famiglia di migranti perché il mare che ha sempre amato, con quei morti, le è diventato nemico. A Boves, sulle montagne del Piemonte, una coppia costruisce un movimento di più di cento persone che aiutano profughi siriani. Uomini e donne di ogni età ed estrazione sociale, dalla "tavola condivisa" di bergamaschi di buon cuore (genitori e figli, insieme) a un dirigente Enel di 60 anni, a Castelfidardo (Ancona), gente carica di valori, risorse ed energie, nonostante tutto.
Sono queste alcune delle vite che Mario Marazziti, storico portavoce di Sant'Egidio, presidente del Comitato per i diritti umani e poi della Commissione affari sociali della Camera dei deputati dal 2013 al 2018, primo firmatario della legge di cittadinanza per i bambini figli di immigrati (ius culturae) racconta nel suo nuovo libro edito da Piemme, Porte aperte. Quelle delle proprie comunità, di casa, ma soprattutto della mente di chi, da Nord a Sud, vincendo la diffidenza ha accolto in vario modo persone in fuga da guerre, persecuzioni e morte.
«Attraverso queste persone la rete dei corridoi umanitari, promossi dalla Comunità di Sant'Egidio, con la Federazione delle Chiese evangeliche e la Conferenza episcopale italiana, si è allargata ed è diventata un modello concreto e praticabile di integrazione che funziona. 
Mi piacerebbe che questo fosse un libro "contagioso", aria buona che fa venire voglia di aria pulita, in un tempo in cui non se ne può più dell'amplificazione dell'aggressività e dei gesti "contro"».
Ecco allora il racconto di 29 luoghi e decine di storie «dove ho visto rinascere sentimenti, vita, frammenti di società che si riannodano perché superano la banalità dei discorsi da bar. Persone che si mettono insieme e che ritrovano in profondità sé stesse. E noi con loro. È come se avessi visto la ricostruzione, la rinascita del dopoguerra, ma oggi. Chi sfoglierà il libro potrà riviverla con me».
E si legge tutto d'un fiato questo viaggio nella parte non conosciuta dei corridoi umanitari «tra gli italiani che hanno reinventato l'accoglienza, l'integrazione e l'inclusione: per farlo, sostenuti da Sant'Egidio e dagli altri promotori, hanno cercato alleati. Così, strada facendo, hanno fatto nascere nuovi pezzi d'Italia, comunità tra tante persone che prima si conoscevano solo di vista, unite da questa nuova sfida». I corridoi umanitari, che sono il frutto di un accordo con il Governo italiano, «sono un varco nelle normative europee esistenti. Questa è un'originalità preziosa di Sant'Egidio: creare soluzioni nuove anche in spazi limitati. Dove l'accoglienza non è a carico dello Stato, ma della società civile. Prima che le persone lascino i campi in Libano o altrove, ci sono degli italiani che qui si organizzano, a spese proprie e di sostenitori, per l'arrivo, l'ospitalità e i primi passi dell'integrazione».
E chi sono questi italiani? «Spesso, ma non sempre, sono cristiani che hanno preso sul serio l'invito di papa Francesco: "Ogni parrocchia ospiti dei migranti". E loro sollecitano la propria a farlo, partendo da sé. Persone come noi, ma che non possono accettare che la gente muoia così nel Mediterraneo e reagiscono: ecco la coppia di Castelfranco Veneto. Attraverso di loro ho visto come è nata e come rifiorisce oggi l'Italia dei Comuni, allo stato nascente». In un Paese dove si vorrebbe ridurre tutto a leader-popolo massificato, dove si indeboliscono i corpi intermedi, «intorno ai profughi dei corridoi umanitari ripartono comunità intere, che si rimettono insieme. Contemporaneamente, ho riscoperto luoghi magnifici dove l'arte si mischia alle tradizioni locali, dal Barocco di Scicli al Piave, dalle Marche di Fano a Bergamo e alla Bassa mantovana, fino alla Calabria e al Golfo di Sorrento, un mix unico di umanità e bellezza che rinasce sempre, antico e nuovo. Un'Italia "minore" che minore non è mai».
Qui i corridoi umanitari diventano un'opportunità, prima di tutto, per gli italiani: «Penso al Trentino che ha saputo rinnovare la sussidiarietà, che è un suo patrimonio, ma messo a dura prova da politiche che indeboliscono la coesione sociale. O ai monaci di Montevergine, in provincia di Avellino, che hanno reinventato il monachesimo con l'ospitalità dei profughi in casa propria, facendo da padri e madri. Alle donne combattive del Sud, della Calabria o di Salerno che, in zone dove c'è poco lavoro, costruiscono integrazione lo stesso, senza concorrenza tra italiani e immigrati. Persone che vengono da famiglie e lavori normali, ma che diventano straordinari perché mettono in comune ciò che hanno imparato nella vita, a vantaggio di altri». Sono tutte famiglie che si "allargano": «Nel modello dei corridoi umanitari, chi arriva non è un profugo solo, ma nuclei familiari, e questo diventa una chiave per un'integrazione più rapida ed efficace. Famiglie "italo-siriane" dove, presto, il confine tra loro diviene labile e chi si è già inserito aiuta i nuovi arrivati a farlo restituendo, come può, agli altri».
In quasi tutti questi luoghi la diffidenza si è in gran parte dissolta, mentre cadono alcune delle principali paure create da una narrazione allarmista e infondata: «A partire dai numeri: non siamo invasi. I migranti nel mondo sono 258 milioni e 71 milioni sono quelli forzati; nell'Ue ne abbiamo meno di cinque milioni, in Italia meno di 3 ogni mille abitanti. E non è vero che "portano le malattie": sono i migranti a essere più a rischio di prendersi malattie infettive, indeboliti dalla condizione di marginalità. Lo dice l'Oms». Questa vita vissuta, anzi, fa emergere una certezza: «L'Italia ha bisogno dei migranti. Nel gelo demografico che la caratterizza, per mantenere la competitività in Europa c'è bisogno di 200, 250 mila stranieri all'anno, perché prima di cambiare la curva demografica, ci vorranno 20/30 anni, visto che sono diminuite le donne italiane in età fertile».
Un modello virtuoso, quello dei corridoi umanitari, che va rilanciato anche per l'Europa: «Costruendone uno dalla Libia per svuotare i campi della vergogna. In Italia questo esempio di integrazione può ispirare anche un diverso modello per la seconda accoglienza fatta nei Comuni, perché è più efficace, rapido ed economico: si potrebbero usare i mezzi che già ci sono per un'integrazione più "accompagnata", ampliando il modello delle sponsorship ai nuclei familiari. Più sicurezza e più integrazione: sarebbe una grande opportunità».


[ Chiara Pelizzoni ]