Le tragedie sulle vie delle migrazioni. «Ciò che deve succedere...». Editoriale di Marco Impagliazzo su Avvenire

Le tragedie sulle vie delle migrazioni. «Ciò che deve succedere...». Editoriale di Marco Impagliazzo su Avvenire

 

Era un mese fa su un fiume americano: due corpi a faccia in giù, un uomo e una bambina. Uniti da una maglietta, dall'affetto reciproco, da una speranza coltivata insieme. Ma anche dalla morte. Eccoli immersi nell'acqua torbida di fango. Oscar e Valeria, padre e figlia, migranti salvadoregni affogati nel tentativo di attraversare il confine fluviale tra Messico e Stati Uniti. Quell'immagine simbolo della tragedia dei migranti che dal Centro America cercano la via della felicità a nord del Rio Grande, negli Usa, si affianca idealmente a un'altra foto, quella del piccolo Alan Kurdi, annegato nel Mediterraneo.
È successo un mese fa, nel Nuovo Mondo. È successo troppe volte nel Mediterraneo. Succede ancora oggi: giunge la notizia di più di cento vite umane annegate nel Mare Nostro. Una tragedia annunciata. Di fronte alla quale stridono le accuse e i decreti contro chi salva in mare e le parole ipocrite del mondo politico europeo che gira intorno al problema senza affrontarlo veramente. Ecco perché ricordare è un dovere. Farsi commuovere e muovere da quei fotogrammi di Oscar e Valeria, dal ricordo di Alan e dalla notizia delle vittime di ieri, uomini, donne e bambini, esseri umani dei quali non vedremo mai il volto, è necessario, perché l'umanità non muoia ancora tra le onde di un fiume o del mare. Di speranza si muore ancora, nel Mediterraneo come pure lungo le altre rotte dell'immigrazione verso l'Europa e gli Stati Uniti. Tra i muri che s'innalzano e le navi che si fermano, il risultato è un'ecatombe. Sant'Egidio ha calcolato in almeno 38.480 i caduti e i dispersi dal 1990 a oggi nel tentativo di raggiungere il continente europeo, «mentre nel primo semestre del 2019 sono già 904 i morti in mare», rivela Amnesty International, sottolineando la crescita della percentuale di chi non ce l'ha fatta sul totale complessivo dei partenti: «Se nel 2017, considerando solo il Mediterraneo centrale, il tasso di mortalità di chi intraprendeva un "viaggio della speranza" era di 1 su 38, nel 2018 è stato di 1 su 14».
Di fronte a queste realtà ci si può anche voltare dall'altra parte. Si può dire che non ci riguardano, che abbiamo già dato, che non ce la facciamo, che è troppo, persino che sono affari solo loro... Ma quelle cifre restano lì, come una pietra d'inciampo. Siamo di fronte a un bilancio troppo pesante per essere considerato, come spesso accade, una statistica accanto alle altre. È una domanda di vita e di futuro rivolta a tutta l'Europa. Quanto dovremmo farci toccare da tutto questo! Quanto potremmo imparare da un'umanità che, per citare papa Francesco, non vuol essere un insieme di vite di scarto, non vuole che le sia rubata la speranza. «Con i rifugiati la Provvidenza ci offre un'occasione per costruire una società più solidale, più fraterna, e una comunità cristiana più aperta, secondo il Vangelo», ha twittato il Papa per la Giornata mondiale dei rifugiati. E vero. C'è un'opportunità anche per noi. Quella di non far annegare la nostra umanità. Come purtroppo è accaduto di nuovo ieri.
In gioco c'è la volontà di non derogare alla nostra civiltà, all'imperativo e alla bellezza della solidarietà. Si può fare e si deve continuare a fare qualcosa. Sant'Egidio, con la Cei, la Caritas italiana, le Chiese evangeliche, altre associazioni e Ong, in accordo con i Ministeri dell'Interno e degli Esteri, ha cercato di aprire un varco nel mare. È possibile. Si sono firmati protocolli ad hoc per l'apertura di specifici "corridoi umanitari": dai campi del Libano per i profughi dalla Siria e dal Medio Oriente, dai campi dell'Etiopia per i rifugiati del Corno d'Africa e da altre zone dell'Africa subsahariana.
Tali corridoi hanno lo scopo di contrastare lo sfruttamento di uomini, donne, bambini, da parte di trafficanti senza scrupoli e di offrire un ingresso nel Paese ospitante che sia a un tempo legale e sicuro, per chi arriva e per chi accoglie. L'accesso al progetto è riservato a persone in «condizioni di vulnerabilità» (oltre a vittime di persecuzioni, torture e violenze, famiglie con bambini, anziani, malati, persone con disabilità). Arrivati in Italia, i profughi sono accolti a spese delle associazioni firmatarie in strutture o appartamenti ed è avviato un percorso di integrazione che comprende l'insegnamento della lingua italiana, l'iscrizione a scuola dei bambini, l'avviamento al lavoro.
Parliamo di centinaia di salvati, e non di sommersi, che non hanno dovuto sfidare le onde per approdare in un Paese senza guerra, che non hanno condiviso un mese fa il destino di Óscar e Valeria e oggi delle nuove vittime nel Mediterraneo. Sembra poco, forse lo è: ma è importante che si sia aperta una strada di salvezza legale e umanitaria allo stesso tempo. Una strada dall'Italia offerta all'Europa, che è diventata una visione concreta. A chi dice che è una goccia nel mare si può rispondere che il mare è fatto di tante gocce d'acqua, ognuna delle quali è una vita salvata e non più sommersa.

 

Avvenire.it


[ Marco Impagliazzo ]