Se il linguaggio dei politici chiude al recupero dei detenuti

Il caso Poggioreale

Che qualcosa non andasse per il verso giusto si percepiva da qualche tempo. Piccoli segnali di un malessere che piano piano si andava insinuando nei corridoi e tra i reparti del carcere di Poggioreale.
Segnali che tuttavia non lasciavano presagire che si potesse sfociare in una sommossa. Atti di violenza e aggressioni verso gli agenti e altri detenuti, come quello di alcuni mesi fa nel padiglione Napoli, quando una trentina di carcerati ha aggredito un giovanissimo nigeriano per poi scaraventarlo dai ballatoi sulle reti di protezione, facendogli fare un volo di circa dieci metri, per "toglierlo dalle mani di chi lo stava ammazzando di botte" ha affermato l'autore di questo gesto.
Più recentemente un recluso ha tirato uno sgabello contro un compagno mancandolo, ma colpendo il dito di un poliziotto penitenziario, procurandogli una grave ferita. Altri episodi potremmo aggiungere a questi, indice di una tensione sempre più alta che sta percorrendo il penitenziario con il maggior numero di detenuti nell'Europa occidentale.
Cosa sta succedendo nel carcere di Poggioreale? O forse potremo dire meglio, cosa sta avvenendo nelle prigioni italiane visto che proteste, rivolte e violenze si susseguono con una certa frequenza? Infatti prima di Napoli, Sanremo, Rieti, Spoleto, Campobasso, solo per fare qualche esempio, sono stati teatro di disordini che evidenziano il clima di inquietudine ed esasperazione che si respira nelle nostre galere.
Il sovraffollamento sta raggiungendo livelli insostenibili. Se negli istituti di pena della Campania si registra un tasso medio pari al 130%, nelle carceri di Poggioreale, Benevento e nel femminile di Pozzuoli viene superata la soglia del 150%. A questo aggiungiamo il caldo torrido di questi giorni che rende infernale la vita all'interno delle celle. Immaginiamo soltanto cosa voglia dire essere in 12 e fare la fila la mattina per andare in bagno.
E poi ci sono tutte le altre criticità di cui abbiamo parlato più volte e che restano sempre lì, senza alcuna soluzione, come la difficoltà per le cure sanitarie, e la presenza di un numero sempre più elevato di persone con disagio psichiatrico. Una condizione che può essere già presente al momento del reato o che può sopraggiungere perché non si regge alla permanenza in cella. È stato proprio il mancato trasferimento in ospedale di un detenuto che si temesse avesse contratto una malattia contagiosa, a scatenare la protesta di domenica.
Mi sembra che però a queste criticità si aggiunga qualcosa di nuovo. I messaggi che partono dal governo e dall'amministrazione penitenziaria inducono a gettare nello sconforto e a deludere le aspettative di benevolenza da parte della popolazione penitenziaria.
Se il ministro Bonafede parla solo di costruire nuove carceri, senza investire nel cambiamento e nella rieducazione dei detenuti lancia un segnale di poca speranza. Pensare di creare strutture per madri detenute con i loro figli, come annunciato nei giorni scorsi a Napoli, appare poi davvero un segno anacronistico e di chiusura.
A questo si aggiunge l'emanazione di circolari che aumentano la conflittualità, come quella che prevede la chiusura di luce e televisione nelle ore notturne. Ma anche il linguaggio di alcuni politici con degli slogan che stanno diventando un mantra di giustizialismo come "buttare la chiave", "marcire in galera", "certezza del carcere", non lasciano ben sperare.
La rivolta dei detenuti del padiglione Salerno è un ulteriore campanello d'allarme che non può essere non ascoltato, e si deve solo alla professionalità del comandante se la vicenda non è degenerata. Il sindacato di polizia penitenziaria parla di carenza degli organici e critica il regime delle stanze aperte. Ma non è solo aumentando gli agenti e rinserrando i detenuti nelle celle che si può avere un carcere più vivibile. Qui si tratta di ripensare in modo rinnovato il sistema carcere, se vogliamo che da questi luoghi escano persone migliori.

 


[ Antonio Mattone ]