L'arte è una mano tesa al nemico perchè cambi. Emozioni e messaggi della mostra degli artisti con disabilità dei Laboratori di Sant'Egidio

L'intervento del presidente della Comunità, Marco Impagliazzo, all'inaugurazione

Una forte emozione, è il sentimento condiviso da tutti coloro che ieri hanno partecipato all'inaugurazione della mostra degli artisti disabili dei Laboratori d'Arte di Sant'Egidio con César Meneghetti. Le opere, con una forza comunicativa straordinaria, comunicano un messaggio forte di inclusione svelando mondi, angoli dell'esclusione e rivelando squarci di bene, di tenerezza, di speranza, che hanno colpito il pubblico - numerosissimo - che ha preso parte alla cerimonia. La mostra resterà aperta al Vittoriano fino al 31 gennaio 2019.

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Possono ben introdurre alla visita le parole del presidente di Sant'Egidio Marco Impagliazzo, che riportiamo integralmente:

Vorrei ringraziare tutti gli artisti per questa mostra bella, piena di significati, che emoziona. È un grande risultato che dobbiamo anche alle idee e agli stimoli di Simonetta Lux e Sandro Zuccari.
Tra inclusione ed esclusione. E’ tra i due poli della vita associata che si muove la mostra dei Laboratori d’Arte di Sant’Egidio.
L’uomo e la donna sono chiamati a vivere l’apertura, la complementarietà, la condivisione, l’“io” che si unisce a un “noi”. Ma  si è anche tentati dalla chiusura, dall’autoreferenzialità, dalla divisione, da un “io” che si contrappone a un “voi”. Ed è bello che la mostra si apra con l’istallazione di Cesar Meneghetti “we/me”, che si riflettono l’uno nell’altro e dicono: io siamo noi!
César Meneghetti e i 53 artisti dei Laboratori d’Arte ci aiutano a capire come percorrere le vie dell’inclusione e a farne la chiave di volta di una nuova modalità di vita.
In un tempo in cui è più facile dividersi, far crescere le barriere di separazione, in cui è più normale contrapporsi, definirsi contro qualcuno o contro qualcosa, l’arte ci aiuta a fermarci, ci obbliga a riflettere, ci muove incontro all’altro.
E’ quanto vediamo in queste opere, che ci parlano dei tanti esclusi del mondo, i migranti, i perseguitati, i poveri, i rom.
L’incisione di Sara Sebastianis nasce dall’aver visto dei senzatetto dormire in una chiesa, quella di San Calisto, per un’emergenza freddo che suppliva alle carenze del pubblico. E l’autrice, con squisita sensibilità, ha voluto porre tra i senza dimora anche l’Homeless Jesus dello scultore canadese Timothy Schmalz.
Altre opere sono ispirate ad esclusioni tanto più diffuse, e che spesso non ci sembrano tali, e denunciano l’istituzionalizzazione degli anziani, come il lavoro “Fuori tutti”, di Marzia Bosco, ovvero l’installazione “Ho sete”.
Ma poi lo sguardo si allarga, dalla nostra Italia al mondo; dal centro città - quel centro geografico e ideale in cui la mostra si colloca, qui a piazza Venezia, nel cuore della città - fino alle mille periferie cittadine e non, geografiche ed esistenziali. E il tema di “Periferie”, appunto, e dell’installazione “L’Africa spremuta”, frutto dell’idea geniale di Sonia Sospirato e Donatella Fabbri e dell’opera “Bravo”, sui bambini africani che non vengono registrati allo stato civile alla nascita.
Del resto, la mostra si apre con una grande video-installazione di César Meneghetti, “Borderlands”, che si intreccia con un’opera plurale degli artisti disabili: 3139 piccole barche di carta, tante quante le persone morte nel 2017 tentando di raggiungere l’Europa, sono a terra sovrastate da un video che proietta il mare, su cui appaiono i nomi dei migranti (almeno di quelli che conosciamo).
L’arte ci parla in maniera potente. Ci dice anche quelle verità che spesso il discorso pubblico vorrebbe nascondere, perché è scomodo o non crea consenso.
L’arte ci offre una via d’uscita dalla trappola dell’esclusione. Ci ricorda che includere si può, che integrare è possibile. Che c’è la Costituzione, che c’è stato Basaglia. Che tanti nel mondo si adoperano per aprire vie nuove dove far passare un messaggio di pienezza e di umanità.
E allora ecco un vero e proprio “laboratorio artistico umanitario”, un dipinto di sette metri dedicato ai “corridoi umanitari” di Roberto Mizzon, come pure un pannello sull’articolo 3 della nostra Carta: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. E lì i visitatori potranno anche portare via con sé un foglio con i primi 12 articoli dei “Principi fondamentali”.
Passando da un’opera all’altra il visitatore sente qualcosa vibrare, riceve un messaggio che parla la lingua dell’umano, e di quanto di umano tutti ci accomuna, una lingua che parla di dolore, ma anche di riscatto; e di orientamento. Un messaggio quanto mai decisivo. Per l’artista e chi dell’opera d’arte è fruitore. Perché abbiamo tutti bisogno di orientarci nel tempo della globalizzazione.
Di rientrare in noi stessi. Di rientrare negli altri.
“Nel mio quartiere di Tor Pignattara ho incontrato gli stranieri migranti. Hassan ci ha dato il suo profumato thè speciale e in più biscotti. Poi un giorno loro sono venuti a pranzo da noi: siamo stati davvero bene in compagnia. E loro nella mia stanza si sono levati le scarpe e si sono messi a pregare”, così scrive Anna Maria. Che ci dice che vivere insieme è molto meno complicato di quel che si dice.
Il problema è il nostro sguardo, tante volte. Roberto racconta: “Sono tanti i poveri che non c’hanno una casa; la gente li vede ma fa come se fossero trasparenti”.
Il problema è il sonno del cuore. Tanto che Micaela si chiede: “Ma l’Italia s’è desta?”.
Cari amici, l’arte ci fa svegliare. Ci cambia. Lo avevano capito benissimo i ragazzi della Scuola di Barbiana, che in “Lettera a una professoressa” scolpiscono una delle più belle definizioni dell’opera d’arte: “una mano tesa al nemico perché cambi”.
In una stagione di piccole inimicizie, in cui sembra più naturale guardare in cagnesco, e più complicato vedersi insieme, facciamoci cambiare un poco, stringiamo la mano che è tesa a ciascuno di noi.
W gli Amici!